7. La questione del
capitalismo cento e venti anni dopo la morte di Marx
Può sembrare vagamente ridicolo
ricordarlo qui, ma è chiaro che la vera ed unica ragione d’essere per la
sopravvivenza dei marxisti è la lotta per il superamento del capitalismo. Ora,
si ammetterà che per poter superare il capitalismo bisogna prima conoscerne con
esattezza i meccanismi riproduttivi, in ciò che hanno di forte e di debole. Qui
la situazione è appunto particolarmente disperata, anche se comunque non è mai
seria.
In Marx non c’è praticamente mai
la parola “capitalismo”, che nasce ai primi del Novecento (Sombart, ecc.). Marx
infatti non intendeva essere un analista della società capitalista, anche
perché sapeva che di queste “società” ce ne erano già parecchie decine (ed ora
sono parecchie centinaia). Egli intendeva essere, ed è effettivamente stato, il
costruttore di un modello teorico astratto, il modello del modo di produzione
capitalistico, un modello che in quanto tale non esiste da nessuna parte del
mondo e certamente non esisterà mai. In nessuna parte del mondo, infatti, vi è
stata e vi sarà mai una società divisa in due classi esclusive, la Borghesia ed
il Proletariato, in cui si sviluppa un meccanismo automatico di aumento della
composizione organica del capitale e di proletarizzazione progressiva dei ceti medi. Questo modello
astratto, che pure è indispensabile, deve sempre essere “incrociato” con la
conoscenza delle concrete società capitalistiche.
Ed è appunto questo che i
marxisti non fanno mai. E non lo fanno mai, perché confondono il riduzionismo
economicistico e l’approccio sindacalistico ai problemi sociali con la fedeltà
allo sguardo “strutturale” del vecchio Marx e dei suoi primi seguaci. La
conseguenza di questa miseria metodologica è stata la seguente, che
praticamente tutte le scoperte sul funzionamento reale della società
capitalistica sono state fatte fuori dalla sfera politica ed
organizzativa dei gruppi e delle correnti che si autodichiaravano “marxiste”
(senza peraltro esserlo). La scuola di Francoforte ed il movimento
situazionista francese, due correnti del tutto estranee ed esterne al movimento
operaio organizzato, hanno analizzato quelle “sovrastrutture” ideologiche
collettive senza le quali non può esistere la riproduzione sociale. C’è voluto
un sociologo americano liberale, Benjamin Barber, per chiarire ciò che è
peraltro evidente ad occhio nudo, e cioè che vi sono oggi purtroppo due modelli
culturali contrapposti nel mondo, il Mc World e la Jihad, e cioè
l’orribile modello americanizzato dei Mc Donald e l’orribile contromodello del
suicidio religioso. E potremmo continuare a lungo.
A cento e venti anni dalla morte
di Marx siamo di fronte ad un curioso ed istruttivo paradosso, che cerco qui di
sintetizzare. Da un lato, l’odierna società capitalistica (ridotta ad una
“media“ mondiale, più o meno come fa con i prezzi l’ISTAT) è diversissima da
quella che c’era ai tempi di Marx, e di fatto pressoché irriconoscibile.
Dall’altro, in modo solo apparentemente contraddittorio, il modello astratto di
modo di produzione capitalistico marxiano è applicabile oggi in modo molto
maggiore di allora. Riuscire ad impostare correttamente questo paradosso
significa partire con il piede giusto. Vediamo allora le due cose
separatamente.
La società capitalistica
contemporanea (ammesso che questo termine geograficamente “unificato” abbia un
senso) è diversissima da quella che c’era ai tempi di Marx. Non si tratta solo
della sua “mondializzazione”, anche se ovviamente quest’ultima è importante. Si
tratta del fatto, per essere provocatoriamente e scandalosamente chiari, che
oggi il destino della classe operaia di fabbrica e dei gruppi sociali ad essa
variamente assimilabili, sembra essere lo stesso della classe contadina un
secolo fa, e cioè un destino non certo di “sparizione” (chi parla di “fine”
della classe operaia è uno sciocco storico e sociologico), ma di diminuzione
graduale di peso strutturale e politico.
Non bisogna infatti confondere la
“salarializzazione” (che è in aumento statistico mondiale) con la
“proletarizzazione”, termine che rimanda ad una sorta di omogeneizzazione
sociale, che invece non si verifica per nulla, mentre le odierne
stratificazioni si sviluppano in modo assolutamente imprevisto dai fondatori e
dai classici del marxismo. Negli anni Venti Antonio Gramsci era pienamente
giustificato nella sua impostazione “egemonica”, in cui i valori produttivi ed
organizzativi della classe operaia erano messi alla base della sua
legittimazione rivoluzionaria globale, ma oggi questa impostazione non può
essere seriamente rilanciata, ed il continuare a farlo in modo rituale rimanda
soltanto la rivoluzione teorica dentro il marxismo che siamo chiamati a
propiziare. Come i contadini cento anni fa, gli operai sono oggi una classe in
declino storico. O i marxisti ne prendono atto e si liberano di un tabù un
tempo tragico ed oggi solo ridicolo oppure noi continuiamo a perdere tempo ed a
raccontarci delle storie, e fra trent’anni saremo qui a dirci ancora le stesse
cose nell’anniversario dei cento e cinquanta anni dalla morte di Marx.
Il modello marxiano di modo di
produzione capitalistico, invece, presenta una attualità che deve essere
compresa nei suoi termini esatti. Da un lato, questo modello ipotizza un
processo di progressiva socializzazione delle forze produttive che non si è
affatto verificato, e cioè la formazione di un lavoratore collettivo
cooperativo associato, che per Marx era l’unico presupposto scientifico
del comunismo da lui apertamente segnalato. In proposito, nessuno è ancora
riuscito a fornire una spiegazione veramente soddisfacente di questo fatto (o
meglio, non-fatto), ma a mio avviso l’ipotesi migliore resta quella di
Gianfranco La Grassa, per cui l’ipotesi di Marx sarebbe stata corretta se si
fosse basata sulla generalizzazione della nozione di fabbrica, mentre non lo è
più se è basata sulla nozione di impresa, che non è affatto semplicemente
l’addizione di più fabbriche. Non a caso, la corrente operaista nelle sue varie
metamorfosi successive, basandosi proprio sulla nozione di fabbrica (e di
conseguenza sulla confusione fra fabbrica ed impresa), considera questa
socializzazione “virtuosa” già avvenuta, ed infatti (stra)parla di moltitudini
desideranti già in grado di socializzare in modo anarchico-consumistico le
ricchezze dell’impero deterritorializzato. E’ proprio vero che nessuno impara
mai niente, e che la vanità e l’ostinazione rendono ciechi e sordi.
Dall’altro lato, però, il modello
marxiano ipotizza una cosa che si è verificata, e cioè la generalizzazione e
l’approfondimento della merce capitalistica. Dico merce capitalistica, e non
semplicemente merce, perché si tratta
di merce che non viene prodotta in un (inesistente) sistema mercantile
semplice, che è l’ipotesi (inesistente) di partenza di tutta l’economia
politica, ma è una merce che viene prodotta in un contesto di crescente
spossamento dei produttori diretti di tipo artigiano (nel linguaggio di Marx,
di un aumento della sottomissione reale dei produttori). La manipolazione
televisiva e l’ingegneria genetica rappresentano i due elementi dominanti di
questa mercificazione totalitaria che non potevano ancora essere visibili a
Marx. La manipolazione televisiva mercifica l’immaginario umano, distruggendo le
precedenti culture (borghesi, contadine, operaie, eccetera), mentre
l’ingegneria genetica, il cui stadio supremo è la clonazione umana, intende
mercificare la stessa riproduzione della vita umana. Si tratta di un vero
“capitalismo totalitario”, e solo l’uso della nozione di Marx permette di
capirlo veramente al di là delle retoriche pauperistiche.
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