Centoventi anni dalla morte di Karl Marx (1883-2003)

Un’occasione per una discussione a tutto campo e per una proposta di autoconvocazione

VII parte

 



Per agevolare la lettura, questo articolo di Costanzo Preve è stato diviso in sette parti, più un'introduzione.

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7. La questione del capitalismo cento e venti anni dopo la morte di Marx

Può sembrare vagamente ridicolo ricordarlo qui, ma è chiaro che la vera ed unica ragione d’essere per la sopravvivenza dei marxisti è la lotta per il superamento del capitalismo. Ora, si ammetterà che per poter superare il capitalismo bisogna prima conoscerne con esattezza i meccanismi riproduttivi, in ciò che hanno di forte e di debole. Qui la situazione è appunto particolarmente disperata, anche se comunque non è mai seria.

In Marx non c’è praticamente mai la parola “capitalismo”, che nasce ai primi del Novecento (Sombart, ecc.). Marx infatti non intendeva essere un analista della società capitalista, anche perché sapeva che di queste “società” ce ne erano già parecchie decine (ed ora sono parecchie centinaia). Egli intendeva essere, ed è effettivamente stato, il costruttore di un modello teorico astratto, il modello del modo di produzione capitalistico, un modello che in quanto tale non esiste da nessuna parte del mondo e certamente non esisterà mai. In nessuna parte del mondo, infatti, vi è stata e vi sarà mai una società divisa in due classi esclusive, la Borghesia ed il Proletariato, in cui si sviluppa un meccanismo automatico di aumento della composizione organica del capitale e di proletarizzazione  progressiva dei ceti medi. Questo modello astratto, che pure è indispensabile, deve sempre essere “incrociato” con la conoscenza delle concrete società capitalistiche.

Ed è appunto questo che i marxisti non fanno mai. E non lo fanno mai, perché confondono il riduzionismo economicistico e l’approccio sindacalistico ai problemi sociali con la fedeltà allo sguardo “strutturale” del vecchio Marx e dei suoi primi seguaci. La conseguenza di questa miseria metodologica è stata la seguente, che praticamente tutte le scoperte sul funzionamento reale della società capitalistica sono state fatte fuori dalla sfera politica ed organizzativa dei gruppi e delle correnti che si autodichiaravano “marxiste” (senza peraltro esserlo). La scuola di Francoforte ed il movimento situazionista francese, due correnti del tutto estranee ed esterne al movimento operaio organizzato, hanno analizzato quelle “sovrastrutture” ideologiche collettive senza le quali non può esistere la riproduzione sociale. C’è voluto un sociologo americano liberale, Benjamin Barber, per chiarire ciò che è peraltro evidente ad occhio nudo, e cioè che vi sono oggi purtroppo due modelli culturali contrapposti nel mondo, il Mc World e la Jihad, e cioè l’orribile modello americanizzato dei Mc Donald e l’orribile contromodello del suicidio religioso. E potremmo continuare a lungo.

A cento e venti anni dalla morte di Marx siamo di fronte ad un curioso ed istruttivo paradosso, che cerco qui di sintetizzare. Da un lato, l’odierna società capitalistica (ridotta ad una “media“ mondiale, più o meno come fa con i prezzi l’ISTAT) è diversissima da quella che c’era ai tempi di Marx, e di fatto pressoché irriconoscibile. Dall’altro, in modo solo apparentemente contraddittorio, il modello astratto di modo di produzione capitalistico marxiano è applicabile oggi in modo molto maggiore di allora. Riuscire ad impostare correttamente questo paradosso significa partire con il piede giusto. Vediamo allora le due cose separatamente.

La società capitalistica contemporanea (ammesso che questo termine geograficamente “unificato” abbia un senso) è diversissima da quella che c’era ai tempi di Marx. Non si tratta solo della sua “mondializzazione”, anche se ovviamente quest’ultima è importante. Si tratta del fatto, per essere provocatoriamente e scandalosamente chiari, che oggi il destino della classe operaia di fabbrica e dei gruppi sociali ad essa variamente assimilabili, sembra essere lo stesso della classe contadina un secolo fa, e cioè un destino non certo di “sparizione” (chi parla di “fine” della classe operaia è uno sciocco storico e sociologico), ma di diminuzione graduale di peso strutturale e politico.

Non bisogna infatti confondere la “salarializzazione” (che è in aumento statistico mondiale) con la “proletarizzazione”, termine che rimanda ad una sorta di omogeneizzazione sociale, che invece non si verifica per nulla, mentre le odierne stratificazioni si sviluppano in modo assolutamente imprevisto dai fondatori e dai classici del marxismo. Negli anni Venti Antonio Gramsci era pienamente giustificato nella sua impostazione “egemonica”, in cui i valori produttivi ed organizzativi della classe operaia erano messi alla base della sua legittimazione rivoluzionaria globale, ma oggi questa impostazione non può essere seriamente rilanciata, ed il continuare a farlo in modo rituale rimanda soltanto la rivoluzione teorica dentro il marxismo che siamo chiamati a propiziare. Come i contadini cento anni fa, gli operai sono oggi una classe in declino storico. O i marxisti ne prendono atto e si liberano di un tabù un tempo tragico ed oggi solo ridicolo oppure noi continuiamo a perdere tempo ed a raccontarci delle storie, e fra trent’anni saremo qui a dirci ancora le stesse cose nell’anniversario dei cento e cinquanta anni dalla morte di Marx.

Il modello marxiano di modo di produzione capitalistico, invece, presenta una attualità che deve essere compresa nei suoi termini esatti. Da un lato, questo modello ipotizza un processo di progressiva socializzazione delle forze produttive che non si è affatto verificato, e cioè la formazione di un lavoratore collettivo cooperativo associato, che per Marx era l’unico presupposto scientifico del comunismo da lui apertamente segnalato. In proposito, nessuno è ancora riuscito a fornire una spiegazione veramente soddisfacente di questo fatto (o meglio, non-fatto), ma a mio avviso l’ipotesi migliore resta quella di Gianfranco La Grassa, per cui l’ipotesi di Marx sarebbe stata corretta se si fosse basata sulla generalizzazione della nozione di fabbrica, mentre non lo è più se è basata sulla nozione di impresa, che non è affatto semplicemente l’addizione di più fabbriche. Non a caso, la corrente operaista nelle sue varie metamorfosi successive, basandosi proprio sulla nozione di fabbrica (e di conseguenza sulla confusione fra fabbrica ed impresa), considera questa socializzazione “virtuosa” già avvenuta, ed infatti (stra)parla di moltitudini desideranti già in grado di socializzare in modo anarchico-consumistico le ricchezze dell’impero deterritorializzato. E’ proprio vero che nessuno impara mai niente, e che la vanità e l’ostinazione rendono ciechi e sordi.

Dall’altro lato, però, il modello marxiano ipotizza una cosa che si è verificata, e cioè la generalizzazione e l’approfondimento della merce capitalistica. Dico merce capitalistica, e non semplicemente merce, perché si tratta  di merce che non viene prodotta in un (inesistente) sistema mercantile semplice, che è l’ipotesi (inesistente) di partenza di tutta l’economia politica, ma è una merce che viene prodotta in un contesto di crescente spossamento dei produttori diretti di tipo artigiano (nel linguaggio di Marx, di un aumento della sottomissione reale dei produttori). La manipolazione televisiva e l’ingegneria genetica rappresentano i due elementi dominanti di questa mercificazione totalitaria che non potevano ancora essere visibili a Marx. La manipolazione televisiva mercifica l’immaginario umano, distruggendo le precedenti culture (borghesi, contadine, operaie, eccetera), mentre l’ingegneria genetica, il cui stadio supremo è la clonazione umana, intende mercificare la stessa riproduzione della vita umana. Si tratta di un vero “capitalismo totalitario”, e solo l’uso della nozione di Marx permette di capirlo veramente al di là delle retoriche pauperistiche.




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