8. La questione del comunismo
cento e venti anni dopo la morte di Marx
Nella tradizione marxista il
comunismo è stato sempre evocato in modo volutamente confuso, con la scusa che
lo stesso Marx non ne voleva parlare, per non “scrivere ricette per le osterie
del futuro”. Al massimo, si evocava o un generico (e demenziale) movimentismo,
il famoso “movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti”, oppure una
prescrizione vuota ed indeterminata, “da ciascuno secondo le sue capacità, a
ciascuno secondo i suoi bisogni”, senza peraltro mai chiarire di quali
“bisogni” si stesse parlando, al di fuori di quelli detti “naturali” (e cioè
riprodursi).
In questa voluta genericità
potevano poi regnare i più terribili arbitri burocratici. Lo ripeto, questa
genericità non è mai stata un sobrio rifiuto della vecchia abitudine utopistica
di prescrivere maniacalmente le forme di convivenza, o quanto meno non è mai
stato questo l’aspetto principale, ma è sempre stata la corazza ideologica del
dispotismo di ceti politici cinici e nichilisti. Messo “alla fine della
storia”, il comunismo è sempre stato l’equivalente ateo dell’aldilà cristiano,
senza peraltro avere neppure la scusante di quest’ultimo, e cioè quella di
essere rivelato. Chi si appella ad una razionalità, e poi non l’applica a se
stesso, è mille volte peggiore di chi non fa neppure finta di farlo, e si
appella al figlio di Dio incarnatosi e nato da una vergine ebrea del tempo di
Augusto. Costui, almeno, non si nasconde dietro alla cosiddetta “scienza”.
La cosa migliore è invertire
l’approccio abituale, e risalire alla genesi storica occidentale della nozione
di “comunismo” (non parlo qui di India, Cina, eccetera). Il comunismo è un
comunità di compagni, nel senso di persone che spezzano il pane insieme
(cum-pane). La matrice storica e simbolica del comunismo occidentale è
stata la mensa comune dei primi cristiani, sull’esempio di Gesù e dei
suoi apostoli, che cenavano sempre insieme (e non solo nella famosa
“ultima cena” leonardesca). La mensa comune era soltanto il momento culminante
della “vita comune” (koinovion), che era già un collaudatissimo modello
delle culture precedenti, modello che ad esempio l’epicureismo aveva sempre
consigliato. Il comunismo è dunque una comunità che vive una vita comune, il
cui momento culminante è la mensa comune dei compagni (in greco antico e
moderno syn-trofoi, coloro che si nutrono insieme).
Riflettiamo. Il marxismo
tradizionale in proposito dice che questo comunismo metteva in comune solo il
consumo e non la produzione, per il semplice fatto che nelle condizioni
tecnologiche del tempo, in assenza della produzione meccanizzata di massa
moderna, ed in presenza della piccola produzione artigianale ed agricola, il
comunismo era pensabile e praticabile solo come comunismo del consumo, e non
come comunismo della produzione.
Giustissimo, ma anche
insufficiente, se riflettiamo sul fatto che il comunismo continua ad essere
simbolicamente connotato come società amicale di compagni e non di colleghi,
cioè di persone con cui si mangia in comune, e non con cui si lavora in comune.
Questo dettaglio etimologico rivelatore, se sappiamo leggerlo
spregiudicatamente, ci rivela che di per sé la semplice comunità produttiva di
lavoro non è ritenuta sufficiente per fondare un nuovo legame sociale, ma che
ci vuole proprio il rimando all’antica vita comune, che trovava nell’amicizia e
nella fraternità comune la solida base della stabile aggregazione. Vorrei che
il lettore riflettesse bene su questa questione del comunismo come “mensa
comune”, perché da essa trarrò subito spunto per due ordini di osservazioni.
In primo luogo, questi primi
comunisti non mettevano in comune tutto, ma solo il momento comunitario della
mensa comune. Molto sobrio, molto intelligente e molto giusto. Al di fuori
della mensa comune c’erano poi altre sfere della vita che non si
mettevano affatto in comune, come ad esempio la vita familiare. Nessuna
sciocchezza sull’abolizione della famiglia, irrefrenabile desiderio della
cultura radicale (nel senso di Pannella-Bonino, non di Marx). Nessun mito della
trasparenza assoluta dei comportamenti, sogno totalitario del controllo totale
fatto passare per fraterna comunità organica. La mensa comune permette la vita
di tutti, ma si ferma prima di quell’utopia negativa dell’irreggimentazione
comune che resterà sempre il principale (e giustificato) argomento contro il
comunismo.
In secondo luogo, la mensa comune
(il simposio greco, il convito latino) presuppone se non proprio
la fraternità, almeno l’amicizia (filia) dei partecipanti. Il comunismo,
infatti, può essere definito secondo due coordinate fondamentali: una società
di amici, che si dicono (o cercano di dirsi) la verità, una verità che
ovviamente non può essere una Cosa eterna staccata dal mondo ed autosufficiente
come il Dio di Aristotele e l’Essere di Parmenide (e di Severino). Ma chiunque
abbia frequentato nel Novecento i gruppi che si dicono “comunisti” può
testimoniare che vi regna sempre la massima potenziale inimicizia ed antipatia
reciproca, non solo fra i ridicoli capi-politicanti divisi da antagonismi
elettorali ma anche fra i membri subalterni delle cordate concorrenti. Questa
litigiosità ed inimicizia dei comunisti non è mai casuale, ma è un segnale di
un deficit antropologico specifico, che rimanda a sua volta alla
fragilità della propria teoria di riferimento, una mescolanza instabile di
pauperismo e di sindacalismo, su cui non è possibile costruire nessuna
egemonia.
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