6. Il marxismo e la filosofia
cento e venti anni dopo la morte di Marx
Da più di un secolo il problema
del rapporto fra il marxismo e la filosofia è intorbidato da un pessimo
approccio preliminare, che lo riduce sempre di fatto al rapporto fra la
dialettica in Marx e la dialettica di Hegel, che Marx avrebbe in qualche
modo rovesciato e messo sui piedi. Questo approccio è doppiamente demenziale,
perché da un lato riduce di fatto Hegel ad un idiota, che a suo tempo pensava
che il mondo andasse avanti sulle idee (assimilate ad opinioni) ignorando che
prima di opinare gli uomini dovessero mangiare, bere e vestirsi, e dall’altro
sembra ridurre lo stesso contributo innovatore di Marx a questa trionfale
scoperta dell’acqua calda.
Vergogna. Vergogna. La questione,
in realtà, sta solo al 20% nel rapporto fra Marx e Hegel (o Feuerbach,
eccetera). Il rimanente 80%, e mi tengo basso sulla percentuale, sta
esclusivamente nel fatto se noi riteniamo oppure no che esista una specifica
conoscenza filosofica di tipo veritativo, distinta e non coincidente con la
conoscenza scientifica, o se noi invece riteniamo che scienza e conoscenza
siano sinonimi, perché tutto ciò che può essere in via di principio conosciuto
deve essere conosciuto scientificamente.
Filologicamente parlando, è
possibile affermare che i fondatori del marxismo, e cioè Marx ed Engels,
indipendentemente dal fatto rilevato nel precedente paragrafo per cui Marx
non aveva una concezione positivistica di scienza, non credevano più, o non
avevano mai creduto, in una specifica conoscenza filosofica di tipo veritativo.
Marx lascia perdere la filosofia dopo il 1846, non ne parla più, e la considera
di fatto integralmente riassorbita nella critica dell’economia politica, a sua
volta fondata sulla teoria storica dei modi di produzione. Engels invece di
filosofia ne parla a lungo, ma per ucciderla meglio, e cioè per ridurla a
concezione del mondo di tipo ideologico-identitario ed a inutile scienza del
ragionamento logico in generale.
Da questa impasse, che
dura da più di un secolo, se ne esce a mio avviso solo in modo radicale.
Dicendo cioè, apertamente, che Marx ed Engels sbagliavano, bisogna
ammetterlo apertamente, e cambiare strada. Ogni mezza misura di tipo
filologico non porta ormai a niente. Questo provocherà urla scomposte nei
dogmatici, sorrisini di scherno negli althusseriani universitari, borbottii e
vari borborigmi nei dilettanti, eccetera. Ma è un prezzo da pagare, e bisogna
pagarlo.
E’ infatti necessario dire
apertamente, senza vergognarsene come di un inconfessabile peccato
piccolo-borghese o idealista, che bisogna ispirarsi alla concezione della
filosofia degli antichi greci. Atene, non Gerusalemme. Atene significa la
verità come oggetto di un pacifico agone dialogico veritativo, Gerusalemme
significa la verità come rivelazione divina che si tratta sempre e solo di
chiosare interminabilmente cercandone l’impossibile (ed illusoria) vera
interpretazione. Non si tratta dunque di tornare a Hegel. Questa sarebbe solo
una mezza misura opportunistica. Si tratta di tornare ai greci. Un riorientamento
mentale cui oggi i marxisti non sono assolutamente preparati, rincoglioniti
come sono da un secolo di diffamazione sistematica della filosofia, sempre
ridotta a religione per colti, ad epistemologia sussidiaria per scienziati, ad
ideologia per militanti e militonti.
Certo, alcuni possibili equivoci
devono essere chiariti subito. Primo, non si tratta di un ritorno ad una scuola
filosofica greca particolare (platonismo, aristotelismo, epicuerismo,
stoicismo, eccetera), ma di un ritorno ad un modo unitario di fare filosofia,
il mettere in mezzo (es meson) la ragione umana (logos)
attraverso un dialogo (dia-logos), solo modo di ottenere la concordia (omonia)
e l’equilibrio (isorropia) non solo dei propri cittadini (polites),
ma di tutti i cittadini del mondo (cosmopolites). Secondo, non si tratta
di rinunciare alle conquiste irreversibili del pensiero moderno da Spinoza a
Hegel a Marx, dalla storicità dello sviluppo umano alla teoria dei modi di
produzione, eccetera, conquiste in buona parte ignote ai greci antichi, ma di
riportare queste conquiste nel loro giusto ambito, che è quello dialogico e
razionale.
Incompatibili con questo
programma minimo sono le due concezioni egemoni fra i marxisti, e cioè le due
concezioni che riducono rispettivamente lo spazio filosofico a spazio
epistemologico ed a spazio ideologico. Per decenni si ha avuto troppa pazienza
verso questi due riduzionismi. Ma oggi essi ci soffocano, e bisogna liberarsene
in piena convinzione.
La riduzione dello spazio
filosofico a spazio epistemologico ha una lunga storia, da Engels a Althusser.
Proposta sicuramente in buona fede e con ottime intenzioni, ha mostrato a poco
a poco il proprio incosciente nichilismo ontologico ed assiologico. Prendiamo
ad esempio il caso della clonazione umana. Personalmente, ritengo che essa
debba essere considerata un crimine contro l’umanità, e che i suoi praticanti
debbano essere incarcerati (in proposito, condivido gli argomenti del medico
francese Israel Nisand, in “La Stampa”, 3-1-03). Ma questa è solo una mia opinione
personale. Ho fatto questo esempio solo per far capire che senza una
riflessione filosofica non si può arrivare ad una valutazione di questa novità
tecnologica, per il semplice fatto, noto ai bambini ma non agli althusseriani
universitari, che la pratica scientifica non può strutturalmente interrogarsi
sui propri presupposti e sulle proprie conseguenze. A suo tempo Gunther Anders
lo ha chiarito in modo quasi insuperabile. Ciò che vale per l’ingegneria
genetica vale ovviamente anche per il marxismo, che senza uno spazio filosofico
veritativo è sordo, cieco e muto con gli altri e con se stesso. Detto questo,
non ritengo oggi questo riduzionismo veramente pericoloso, perché so bene che è
limitato a piccolissimi gruppi di epistemologi maniaci del tutto autoreferenziali.
La vera peste è invece la
riduzione dello spazio filosofico a spazio ideologico. Le sue colpe le ha
ovviamente anche Lenin, di cui ho già ricordato il carattere catastrofico della
teoria della “partiticità della filosofia”. Ma sono passati ormai più di
ottant’anni, e Lenin conviene lasciarlo stare. Un movimento culturalmente sano
può fare anche gravi errori, inevitabili nel processo contraddittorio della
autocorrezione scientifica, ma ciò che scandalizza è la stabile incapacità di
superarli in un tempo ragionevole. Ad esempio, credere di poter superare la
religione con un’ideologia, cioè con una forma instabile e degradata di
religione, è un tale abbaglio, una tale sciocchezza che viene da chiedersi come
è stata possibile.
Non riuscirò mai ad esprimermi su
questo punto in modo sufficientemente duro. Nello stesso tempo, non credo
affatto che la forma ideologica delle rappresentazioni umane sia eliminabile, e
possa essere in un futuro integralmente sostituita dalle due forme trasparenti
di coscienza scientifica e filosofica. Così come il corpo umano si esprime
anche attraverso le malattie, che rivelano la sua strutturale ed ineliminabile
finitezza e temporalità, nello stesso modo la conoscenza umana esprime la sua
strutturale finitezza con l’illusione ideologica, che proietta l’elemento
immaginario della nostra coscienza fissandolo di tanto in tanto nell’elemento
simbolico. Non si tratta allora di “eliminare l’ideologia”, ma di riconoscerla
come momento necessario e nello stesso tempo del tutto instabile ed
insufficiente. Il movimento del comunismo storico novecentesco (1917-1991) non
poteva strutturalmente esercitare questa autoanalisi necessaria, perché era
nato sulla base di una falsa coscienza che erigeva la propria particolarità
inevitabile in universalità fittizia. Se dunque vogliamo che il comunismo possa
avere una “seconda stagione”, e siamo consapevoli del fatto che non potrà mai
averla riproponendo le vecchie forme ideologiche (ma il 95% dei comunisti oggi
ancora empiricamente esistenti sono lontanissimi da questa comprensione
elementare e preliminare, e quindi la situazione è tragica), dobbiamo
giungere alla consapevolezza del fatto che non si può più continuare come
prima.
Questo è dunque il nodo
essenziale. Basta con l’illusione di essere già in possesso di una “scienza”
alla Galileo Galilei o alla Max Weber. Questa scienza nessuno l’ha mai vista,
tanto è vero che i burocrati l’hanno sempre oscenamente piegata alle loro
convulsioni tattiche. Basta con la riduzione dello spazio filosofico, veritativo
e conoscitivo, all’ideologia. Su questa due cose non si possono più fare
sconti.
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