Centoventi anni dalla morte di Karl Marx (1883-2003)

Un’occasione per una discussione a tutto campo e per una proposta di autoconvocazione

V parte

 



Per agevolare la lettura, questo articolo di Costanzo Preve è stato diviso in sette parti, più un'introduzione.

All'introduzione

Alla parte precedente

Alla parte successiva




5. Il marxismo e la scienza cento e venti anni dopo la morte di Marx

Ho già chiaramente detto in un paragrafo precedente che è illusorio, fuorviante, menzognero ed insostenibile continuare in modo diretto o indiretto a far credere che il marxismo, comunque lo si voglia formulare e coerentizzare, possa essere una “scienza” nel senso delle scienze naturali moderne (Galileo Galilei) o nel senso delle scienze sociali unificate avalutative (Max Weber). Eppure questo obbrobrio è stato maggioritario nella storia del marxismo teorico, dall’illusione dell’avvenuto passaggio dall’utopia alla scienza di Engels al “comunismo scientifico” del marxismo sovietico, dal “galileismo morale” di Galvano Della Volpe ai ridicoli e fastidiosi tentativi dell’althusserismo universitario (ma non certo di Althusser) di eliminare ogni componente filosofica dalla sguardo marxista sul mondo. Alla fine del paragrafo, proporrò una mia formulazione provvisoria. Prima, però, farò una serie di osservazioni per chiarire al lettore il perché di una certa conclusione.

In primo luogo, è vero che esistono moltissimi studi sul concetto di “scienza” in Marx, ma la maggior parte di questi studi passa sempre a lato di due enormi problemi. Primo, Marx da giovane ha una socializzazione teorica hegeliana, non positivistica, pur rifiutando il “pezzo” più importante e decisivo di Hegel, e cioè il riconoscimento del valore conoscitivo autonomo della conoscenza specificatamente filosofica (senza cui parlare di “hegelismo” è semplicemente ridicolo), eredita pur sempre da Hegel l’idea che la “scienza” deve fondarsi su di un fondamento in qualche misura filosoficamente presupposto, e cioè una certa idea del rapporto fra totalità e verità. Secondo, è vero che Marx non ha mai sistematizzato le sue osservazioni critiche verso la concezione di scienza del positivismo, ma le sue critiche (in particolare a Comte ed a Darwin) sono sempre talmente ripetute, insistenti ed a volte quasi ossessive da non lasciare dubbi sul fatto che egli personalmente respingeva questo modello epistemologico, in cui il “concreto” dell’empirismo si rovesciava sistematicamente nell’“astratto” del razionalismo.

In secondo luogo, non vi sono dubbi che il vero ed unico “fondatore” del marxismo inteso come sistema organicamente coerentizzato (consistent, per usare il corretto termine dell’epistemologia anglosassone), e cioè Engels, non poteva che adottare il modello positivistico (con qualche irrilevante aggiunta di pseudo-dialettica, comunque non “hegeliana”) dominante nel ventennio 1875-95. E questo per il semplice e nudo fatto che il solo committente politico-sociale storicamente interessato ad adottare il “marxismo” (ovviamente nella forma ideologicamente depotenziata dell’evoluzionismo progressistico tranquillizzante sulla sua prossima vittoria), e cioè la classe operaia organizzata della seconda rivoluzione industriale, voleva ed esigeva questa formulazione positivistica, per il semplice fatto che essa era la stessa della borghesia. Dalle caverne ad oggi, per discutere con qualcuno bisogna parlare una stessa lingua. Il modello positivistico di scienza, almeno dal 1875 al 1895, era l’unico modello in cui si fosse disposti a discutere. Quando arriva la cosiddetta “crisi delle scienze”, e cioè solo un decennio dopo, il marxismo aveva già perso il treno e si portò dietro per tutto il Novecento questo penoso modello deterministico, necessitaristico e riduzionistico. I conti sono stati saldati fra il 1989 ed il 1991. Errare è umano, perseverare è diabolico.

In terzo luogo, vi è spesso una penosa incapacità a capire che il concetto di scienza non può essere ricavato né dalle esigenze identitarie di compattamento di microorganizzazioni a dominanza ideologica né tanto meno dalle varie e contrastanti nozioni di “scientificità” elaborate fisiologicamente dalle corporazioni universitarie. Si tratta di un punto cruciale da capire, e finché non lo si è capito non si caverà un ragno dal buco.

Le microorganizzazioni militanti a dominanza ideologica hanno sopra ad ogni altra cosa un’esigenza identitaria di compattamento che impedisca lo scioglimento del gruppo ed il ritorno a vita privata dei suoi membri attivi. Questo vale ovviamente per tutte le possibili varianti (bordighiste, trotzkiste, maoiste, anarchiche, operaiste, neo-staliniste, anti-imperialiste, confusionario no-global, eccetera), e nessuno deve essere tanto presuntuoso da credersene escluso. Fra la verità disincantata e la menzogna edificante sceglieranno sempre (su questo ho un’esperienza personale di quarant’anni, e non intendo rimuoverla per raccontar(mi) delle storie) la menzogna edificante, ed in un certo senso fanno bene. Si tratta di strategie di rimozione notissime, dai coniugi che si sanno traditi ma non vogliono rompere, ai malati gravi che decidono di non cadere nella prostrazione, eccetera. Sia ben chiaro che io non condanno moralisticamente questo atteggiamento, anche perché per me la “verità” in sé e per sé non è il valore etico primario (se devo sceglierne uno sceglierei la giustizia, o la carità). Ma è chiaro che, applicato al marxismo, questo atteggiamento non ci porta fuori dalla crisi.

Le corporazioni universitarie non hanno assolutamente la stessa nozione di scientificità, ma fanno come se la propria nozione specialistica fosse la sola e l’unica esistente. A proposito del marxismo, faccio qui brevemente l’esempio delle tre corporazioni universitarie degli economisti, dei filosofi e dei sociologi. Per la corporazione universitaria degli economisti il punto “scientifico” fondamentale del marxismo è la correttezza o meno della cosiddetta trasformazione dei valori di scambio fondati sul lavoro in prezzi di produzione, laddove per i filosofi ed i sociologi questa trasformazione è quasi del tutto priva di interesse, anche se a volte fingono una cortese disattenzione. Per la corporazione universitaria dei filosofi le questioni fondamentali sono l’applicabilità o meno della categoria giovane-marxiana di alienazione oppure la differenza fra contraddizione dialettica (A-non A) ed opposizione reale (A-B), laddove per i sociologi e gli economisti tutto questo è chiacchiera insensata per chi non ha nulla di meglio da fare. Per la corporazione universitaria dei sociologi la questione scientifica fondamentale è la possibilità di conciliare o meno lo schema dicotomico rigido del modello classistico marxista (Borghesia versus Proletariato, e stop) con tutta la ricca stratificazione strutturale e funzionale e la sua dinamica ascendente e discendente, laddove gli economisti ed i filosofi vi gettano sempre al massimo uno sguardo distratto di cortesia, ma non se ne sentono realmente interpellati. Tutto questo era già tragicomico un tempo, ma oggi con la mania dei workshops, cioè dello spezzettamento del dibattito in gruppi di specialismi incomunicanti, si è giunti a livelli che Borges e Kafka non avrebbero mai immaginato.

E allora, qual’è lo statuto del marxismo? Il lettore non deve certo illudersi che io lo sappia e glielo dica. Se pensa veramente questo si vede che non ha la minima percezione della gravità della crisi in cui il marxismo è caduto, e da cui non potremo risollevarci se non nell’arco di decenni (come minimo) e con un dibattito collettivo su scala mondiale (da non confondere con il turismo politico presenzialistico dei no-global professionali, i cui viaggi sono pagati da ONG di dubbio finanziamento). Tuttavia, per non sembrare ipocrita ed opportunista, dirò egualmente la mia opinione.

Il marxismo potrà ricostituirsi come una forma di sapere sociale dotato di due dimensioni, e cioè la conoscenza e l’interpretazione. Queste due dimensioni sono legate insieme organicamente, possono essere distinte solo con un procedimento temporaneo di astrattizzazione intellettuale, e non consentono dunque né la soluzione matematico-sperimentale di Galileo Galilei né la soluzione avalutativa-idealtipica di Max Weber. L’elemento conoscitivo si basa sull’applicazione al concreto reale dell’apparato concettuale marxiano originario (modo di produzione, forze produttive, rapporti di produzione, ideologia) e delle sue aggiunte posteriori (imperialismo, formazione economico-sociale, bilancio delle cause strutturali del fallimento del comunismo storico novecentesco 1917-1991, eccetera). L’elemento interpretativo, impossibile da ridurre a ricaduta epistemologica o ideologica dell’elemento scientifico preventivamente assolutizzato, consiste in una visione del mondo di tipo “comunista”, e cioè in una sorta di intuizione del mondo, di per sé assolutamente non scientifica, che respinge la totalità riproduttiva del modo di produzione capitalistico su basi inevitabilmente morali, etiche, estetiche (che anzi giocano a mio avviso un ruolo primario), umanistiche, eccetera. Ogni critica all’umanesimo, in proposito, assomiglia alla scelta di chi, per aumentare la propria virilità, si autoinfligge una rasoiata sui coglioni.

Abbiamo sopportato per decenni la diffusione di idiozie intollerabili, che nessun altra comunità avrebbe mai sopportato. Ci vuole un’inversione di tendenza. Se puoi qualcuno mi vuole chiedere in privato se sono ottimista risponderò in modo telegrafico: assolutamente no. Ci vorrà gente nuova, giovani, nuove generazioni, eccetera. E senza nessuna garanzia. Ci vorrà molto più di Giorgio Gaber, e molto meno di Dario Fo.




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