5. Il marxismo e la scienza
cento e venti anni dopo la morte di Marx
Ho già chiaramente detto in un
paragrafo precedente che è illusorio, fuorviante, menzognero ed insostenibile
continuare in modo diretto o indiretto a far credere che il marxismo, comunque
lo si voglia formulare e coerentizzare, possa essere una “scienza” nel senso
delle scienze naturali moderne (Galileo Galilei) o nel senso delle scienze
sociali unificate avalutative (Max Weber). Eppure questo obbrobrio è stato
maggioritario nella storia del marxismo teorico, dall’illusione dell’avvenuto
passaggio dall’utopia alla scienza di Engels al “comunismo scientifico” del
marxismo sovietico, dal “galileismo morale” di Galvano Della Volpe ai ridicoli
e fastidiosi tentativi dell’althusserismo universitario (ma non certo di
Althusser) di eliminare ogni componente filosofica dalla sguardo marxista sul
mondo. Alla fine del paragrafo, proporrò una mia formulazione provvisoria.
Prima, però, farò una serie di osservazioni per chiarire al lettore il perché
di una certa conclusione.
In primo luogo, è vero che
esistono moltissimi studi sul concetto di “scienza” in Marx, ma la maggior
parte di questi studi passa sempre a lato di due enormi problemi. Primo, Marx
da giovane ha una socializzazione teorica hegeliana, non positivistica, pur
rifiutando il “pezzo” più importante e decisivo di Hegel, e cioè il
riconoscimento del valore conoscitivo autonomo della conoscenza specificatamente
filosofica (senza cui parlare di “hegelismo” è semplicemente ridicolo), eredita
pur sempre da Hegel l’idea che la “scienza” deve fondarsi su di un fondamento
in qualche misura filosoficamente presupposto, e cioè una certa idea del
rapporto fra totalità e verità. Secondo, è vero che Marx non ha mai
sistematizzato le sue osservazioni critiche verso la concezione di scienza del
positivismo, ma le sue critiche (in particolare a Comte ed a Darwin) sono
sempre talmente ripetute, insistenti ed a volte quasi ossessive da non lasciare
dubbi sul fatto che egli personalmente respingeva questo modello
epistemologico, in cui il “concreto” dell’empirismo si rovesciava
sistematicamente nell’“astratto” del razionalismo.
In secondo luogo, non vi sono
dubbi che il vero ed unico “fondatore” del marxismo inteso come sistema
organicamente coerentizzato (consistent, per usare il corretto termine
dell’epistemologia anglosassone), e cioè Engels, non poteva che adottare il
modello positivistico (con qualche irrilevante aggiunta di pseudo-dialettica,
comunque non “hegeliana”) dominante nel ventennio 1875-95. E questo per il
semplice e nudo fatto che il solo committente politico-sociale
storicamente interessato ad adottare il “marxismo” (ovviamente nella forma
ideologicamente depotenziata dell’evoluzionismo progressistico tranquillizzante
sulla sua prossima vittoria), e cioè la classe operaia organizzata della
seconda rivoluzione industriale, voleva ed esigeva questa formulazione
positivistica, per il semplice fatto che essa era la stessa della borghesia.
Dalle caverne ad oggi, per discutere con qualcuno bisogna parlare una stessa
lingua. Il modello positivistico di scienza, almeno dal 1875 al 1895, era l’unico
modello in cui si fosse disposti a discutere. Quando arriva la cosiddetta
“crisi delle scienze”, e cioè solo un decennio dopo, il marxismo aveva già
perso il treno e si portò dietro per tutto il Novecento questo penoso modello
deterministico, necessitaristico e riduzionistico. I conti sono stati saldati
fra il 1989 ed il 1991. Errare è umano, perseverare è diabolico.
In terzo luogo, vi è spesso una
penosa incapacità a capire che il concetto di scienza non può essere ricavato
né dalle esigenze identitarie di compattamento di microorganizzazioni a
dominanza ideologica né tanto meno dalle varie e contrastanti nozioni di
“scientificità” elaborate fisiologicamente dalle corporazioni universitarie. Si
tratta di un punto cruciale da capire, e finché non lo si è capito non si
caverà un ragno dal buco.
Le microorganizzazioni militanti
a dominanza ideologica hanno sopra ad ogni altra cosa un’esigenza identitaria
di compattamento che impedisca lo scioglimento del gruppo ed il ritorno a vita
privata dei suoi membri attivi. Questo vale ovviamente per tutte le possibili
varianti (bordighiste, trotzkiste, maoiste, anarchiche, operaiste,
neo-staliniste, anti-imperialiste, confusionario no-global, eccetera), e
nessuno deve essere tanto presuntuoso da credersene escluso. Fra la verità
disincantata e la menzogna edificante sceglieranno sempre (su questo ho
un’esperienza personale di quarant’anni, e non intendo rimuoverla per
raccontar(mi) delle storie) la menzogna edificante, ed in un certo senso fanno
bene. Si tratta di strategie di rimozione notissime, dai coniugi che si sanno
traditi ma non vogliono rompere, ai malati gravi che decidono di non cadere
nella prostrazione, eccetera. Sia ben chiaro che io non condanno
moralisticamente questo atteggiamento, anche perché per me la “verità” in sé e
per sé non è il valore etico primario (se devo sceglierne uno sceglierei
la giustizia, o la carità). Ma è chiaro che, applicato al marxismo, questo
atteggiamento non ci porta fuori dalla crisi.
Le corporazioni universitarie non
hanno assolutamente la stessa nozione di scientificità, ma fanno come se la
propria nozione specialistica fosse la sola e l’unica esistente. A proposito
del marxismo, faccio qui brevemente l’esempio delle tre corporazioni
universitarie degli economisti, dei filosofi e dei sociologi. Per la
corporazione universitaria degli economisti il punto “scientifico” fondamentale
del marxismo è la correttezza o meno della cosiddetta trasformazione dei valori
di scambio fondati sul lavoro in prezzi di produzione, laddove per i filosofi
ed i sociologi questa trasformazione è quasi del tutto priva di interesse,
anche se a volte fingono una cortese disattenzione. Per la corporazione
universitaria dei filosofi le questioni fondamentali sono l’applicabilità o
meno della categoria giovane-marxiana di alienazione oppure la differenza fra
contraddizione dialettica (A-non A) ed opposizione reale (A-B), laddove per i
sociologi e gli economisti tutto questo è chiacchiera insensata per chi non ha
nulla di meglio da fare. Per la corporazione universitaria dei sociologi la
questione scientifica fondamentale è la possibilità di conciliare o meno lo
schema dicotomico rigido del modello classistico marxista (Borghesia versus
Proletariato, e stop) con tutta la ricca stratificazione strutturale e
funzionale e la sua dinamica ascendente e discendente, laddove gli economisti ed
i filosofi vi gettano sempre al massimo uno sguardo distratto di cortesia, ma
non se ne sentono realmente interpellati. Tutto questo era già tragicomico un
tempo, ma oggi con la mania dei workshops, cioè dello spezzettamento del
dibattito in gruppi di specialismi incomunicanti, si è giunti a livelli che
Borges e Kafka non avrebbero mai immaginato.
E allora, qual’è lo statuto del
marxismo? Il lettore non deve certo illudersi che io lo sappia e glielo dica.
Se pensa veramente questo si vede che non ha la minima percezione della gravità
della crisi in cui il marxismo è caduto, e da cui non potremo risollevarci se
non nell’arco di decenni (come minimo) e con un dibattito collettivo su
scala mondiale (da non confondere con il turismo politico presenzialistico dei
no-global professionali, i cui viaggi sono pagati da ONG di dubbio
finanziamento). Tuttavia, per non sembrare ipocrita ed opportunista, dirò
egualmente la mia opinione.
Il marxismo potrà ricostituirsi
come una forma di sapere sociale dotato di due dimensioni, e cioè la conoscenza
e l’interpretazione. Queste due dimensioni sono legate insieme organicamente,
possono essere distinte solo con un procedimento temporaneo di astrattizzazione
intellettuale, e non consentono dunque né la soluzione matematico-sperimentale
di Galileo Galilei né la soluzione avalutativa-idealtipica di Max Weber.
L’elemento conoscitivo si basa sull’applicazione al concreto reale
dell’apparato concettuale marxiano originario (modo di produzione, forze
produttive, rapporti di produzione, ideologia) e delle sue aggiunte posteriori
(imperialismo, formazione economico-sociale, bilancio delle cause strutturali
del fallimento del comunismo storico novecentesco 1917-1991, eccetera).
L’elemento interpretativo, impossibile da ridurre a ricaduta epistemologica o
ideologica dell’elemento scientifico preventivamente assolutizzato, consiste in
una visione del mondo di tipo “comunista”, e cioè in una sorta di intuizione
del mondo, di per sé assolutamente non scientifica, che respinge la totalità
riproduttiva del modo di produzione capitalistico su basi inevitabilmente
morali, etiche, estetiche (che anzi giocano a mio avviso un ruolo primario),
umanistiche, eccetera. Ogni critica all’umanesimo, in proposito, assomiglia
alla scelta di chi, per aumentare la propria virilità, si autoinfligge una
rasoiata sui coglioni.
Abbiamo sopportato per decenni la
diffusione di idiozie intollerabili, che nessun altra comunità avrebbe mai
sopportato. Ci vuole un’inversione di tendenza. Se puoi qualcuno mi vuole
chiedere in privato se sono ottimista risponderò in modo telegrafico: assolutamente
no. Ci vorrà gente nuova, giovani, nuove generazioni, eccetera. E senza
nessuna garanzia. Ci vorrà molto più di Giorgio Gaber, e molto meno di Dario
Fo.
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