6. Palmiro Togliatti e la pratica suicida dell’intellettuale organico
Non ha dunque molto senso condannare Togliatti per cose di cui non è assolutamente colpevole, come di non aver fatto una impossibile rivoluzione nel 1945 o di aver rifiutato una piattaforma classista pura per l’identità politica del suo partito. Altri sono i problemi, e su questi problemi deve dirigersi la discussione, per non finire con l’essere di fatto demenziale.
Togliatti costruì un partito ideologico fortemente identitario, che tendeva a dividere i “nostri”, e cioè i compagni, e gli “altri”, tutti più o meno inaffidabili. Siamo talmente abituati a trovare tutto questo ovvio e naturale che ci dimentichiamo che già il filosofo Hegel aveva individuato in questa scissione identitaria il segreto dell’impossibilità di ogni universalismo reale. La scissione identitaria, indispensabile quando si deve rompere con una precedente situazione insostenibile e bloccata, non può però riprodursi troppo a lungo, perché produce fenomeni di tipo autoreferenziale ed entropico, cioè implosivo, come del resto si è poi visto nell’epoca della dissoluzione del movimento comunista storico novecentesco. L’eccesso identitario soffre di patologie narcisistiche e paranoiche: noi siamo i migliori, e per questo tutti ci vogliono distruggere.
Togliatti scelse il centralismo democratico, adducendo il ragionevole argomento per cui la cristallizzazione in correnti si presta alla pressione esterna e comporta immobilismo e reciprochi veti paralizzanti. Si disse anche che questo non impediva però il più ampio dibattito che avrebbe preceduto la vera e propria decisione politica definitiva. Si trattava di una falsità assoluta. Chiunque si fosse distinto per aver sostenuto posizioni di dissenso dentro il partito avrebbe certo potuto evitare l’espulsione, ma non l’emarginazione ed il blocco della carriera politica. Faccio qui un solo esempio. Se il cinico baffetto D’Alema si fosse battuto nel 1969 contro l’espulsione del gruppo del “Manifesto”, anziché votare per l’espulsione con un discorsetto ipocrita e conformista, avrebbe forse potuto giungere nel 1999 ad essere capo del governo ed a fare la guerra del Kosovo per conto dell’imperialismo USA? E’ assolutamente chiaro ed evidente che il ruolo del dissenziente rompiballe avrebbe impedito ogni sua carriera politica. Questo sistema del conformismo identitario era fatto apposta per favorire una selezione alla rovescia: davanti i manovrieri, i furbacchioni e gli opportunisti, dietro i critici e gli innovatori. Si tratta di patologie tipiche anche delle aziende e delle imprese, che infatti funzionano anch’esse sulla base del centralismo democratico.
Togliatti è noto per aver cercato l’alleanza con la cultura, sulla base del vecchio concetto gramsciano di “intellettuale organico”. Ma sappiamo che mentre in teoria questo concetto voleva connotare il rapporto degli intellettuali con i due campi della borghesia capitalistica e del proletariato rivoluzionario, in pratica con l’introduzione del concetto di Moderno Principe gli intellettuali organici erano solo quelli che erano “organici” alla linea politica ed all’identità ideologica del partito nuovo togliattiano.
Ho già sostenuto in precedenza, e qui lo ripeto, che solo le due categorie dei cappellani militari e degli psicologi aziendali possono veramente essere “organiche”. Se l’intellettuale è veramente uno studioso critico e creativo non è un produttore di organicità, ma di conoscenza, ipotesi ed interpretazione. Se si capisce questo, si capirà anche perché più del 90% di quanto è stato prodotto in Italia dal marxismo critico, da Franco Fortini a Cesare Cases, da Gianfranco La Grassa ad Antonio Negri, da Raniero Panzieri a Ludovico Geymonat, ecc., ecc., è stato prodotto fuori e contro la nozione e lo statuto di intellettuale organico. Ma non si tratta solo di una storia delle idee marxiste in Italia. Questo, anzi, è solo l’aspetto secondario. L’aspetto principale sta nell’avere costruito un conformismo identitario di massa che alla fine produceva un vero e proprio blocco sia della conoscenza che dell’innovazione. Una catastrofe culturale che per la “lunga durata” che comporta pagheremo ancora per molti decenni.
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