![]() Miguel Martínez Questo articolo è uscito per la prima volta sul numero 32 - maggio-giugno 2003 - della rivista Praxis (c.p. 162, 06034 Foligno (PG), e-mail praxis@voceoperaia.it). A chi fosse interessato all'argomento, si segnala su questo stesso sito anche l'articolo "Le saponette dell'Impero".
In questo articolo, si affrontano le
principali difficoltà, o meglio le principali falsificazioni, che impediscono
la comprensione di quello che avviene oggi negli Stati Uniti.
Nel secondo articolo, si parla del
fondamentalismo religioso di massa e le sue implicazione politiche.
Nel terzo articolo, si parla del
cristianosionismo e del rapporto tra il fondamentalismo americano e la
questione israelo-palestinese.
Nel quarto articolo, si parla del
ruolo dei cosiddetti “neoconservatori” nella nuova rivoluzione americana.
Lo scopo di questa serie di articoli
è di dare alcune informazioni sul fondamentalismo americano. La sociologia
delle chiese elettroniche, la teologia della prosperità, il cristianosionismo,
il mito di Armageddon sono elementi essenziali per capire l’immaginario che
assicura il consenso a quella costellazione di poteri che si raccoglie attorno
al governo Bush. Queste informazioni mancano quasi completamente in Italia: l’unico
studio serio in merito è il prezioso ma introvabile L’immaginario al potere di
Roberto Giammanco.[1]
Ma prima di dare tali informazioni,
occorre capire il contesto in cui vanno inserite. Per farlo, dobbiamo cambiare
radicalmente prospettiva sugli Stati Uniti. Quindi occorre una premessa che non
dia particolari informazioni nuove, ma riordini quelle che abbiamo già, in una
maniera che mi auguro sia semplice e chiara, anche se per forza di cose un po’
generica.
“Vogliamo o no privare l’Iraq
delle armi di distruzione di massa e togliere al terrorismo le sue basi?” è
stata la domanda principale posta ai tempi della guerra contro l’Iraq. Con
debole eco, il movimento per la pace ha risposto, “No, non dobbiamo
uccidere, nemmeno per motivi così nobili”.
Anche adesso, il campo pacifista si
limita a denunciare la menzogna minore che tale proposizione conteneva: infatti
l’Iraq non aveva armi di distruzione di massa, né faceva da base per alcun tipo
di terrorismo, se si eccettua quello antiraniano che gli americano hanno
ereditato adesso da Saddam Hussein.
Ma questo è un dettaglio. Le vere
falsità della proposizione sono altre, e finché non riusciamo a coglierle, ogni
azione contro la guerra diventa vana.
La prima falsificazione consiste
nell’uso del pronome “noi” per parlare dell’azione compiuta dagli Stati
Uniti. Il pronome esatto per un paese lontano da noi alcune migliaia di
chilometri e a cui il nostro parere non interessa minimamente è, come può
confermare qualunque libro di grammatica, “loro”.
La seconda falsificazione consiste
nell’isolare la questione dell’Iraq come se fosse quello il problema.
Immaginiamo quale diversa coscienza
avrebbe avuto il movimento contro la guerra, se ci si fosse posti invece questa
domanda:
“Siete
favorevoli o contrari al fatto che un piccolo gruppo di miliardari, che
controlla la più grande potenza militare della storia, abroghi lo stato di
diritto nel proprio paese e la legalità internazionale nel mondo e si permetta
di attaccare con la violenza chiunque?”
Il Problema con la maiuscola,
infatti, non è quello iracheno e nemmeno quello palestinese: l’unico problema
serio dei nostri tempi è il problema americano. Eppure è un problema
rimosso. Pur non sapendo nulla in realtà del Vicino Oriente, tutti conoscono un
gran numero di termini astrusi e di personaggi minori del mondo islamico, dai mujahidin
a Sheykh Yasin, mentre quasi nessuno in Italia conosce quelli
infinitamente più importanti del mondo americano: alzi la mano chi sa dire cosa
sia il Dispensationalism oppure il Center for Security Policy.
è come se il lettore medio nel 1939
avesse potuto disporre di una quantità enorme di informazioni sui difetti e sui
pregi della Polonia, ma non vi fosse quasi nulla sulla Germania. Ora, la
Polonia all’epoca era una mezza dittatura militare, che incarcerava gli
oppositori e trattava in maniera schifosa le sue minoranze etniche, lituani,
ucraini, ebrei, tedeschi, bielorussi; e aveva appena partecipato, assieme alla
Germania, alla spartizione della Cecoslovacchia. Si sarebbe potuto disquisire a
lungo se fosse giusto o no rovesciare un regime del genere. Solo che sappiamo
tutti che il problema polacco non era il problema del 1939.
è fondamentale quindi esplorare il
paese-problema, al di là della visione provinciale che gli italiani ne hanno:
l’America immaginata come ente eterno sempre uguale a se stesso, la “più antica
democrazia del mondo”, che però a volte sbanda maltrattando i neri o facendo
guerre non sempre perfettamente giustificabili; l’America giovane e impulsiva
che commette errori ma li sa sempre correggere grazie alla sua infinita libertà;
il paese che ci ha salvati dal fascismo, ma che, in certi momenti, abbiamo il
dovere di criticare con rispettosa amicizia.
Ovviamente i lettori di questa
rivista sono in grado di vedere la natura vera di simili affermazioni,
infantile anche nel senso letterale, di dipendenza da una madre fantasticata
come intrinsecamente buona.
Occorre
però una chiave di lettura, che ci permetta di cogliere soprattutto la realtà
degli Stati Uniti in questo momento. Noi non possiamo giudicare l’Italia
di Berlusconi con lo stesso metro con cui giudichiamo quella di Michelangelo, o
di Giolitti, o di Mussolini. E per lo stesso banale motivo non possiamo
giudicare l’America di Bush con lo stesso metro con cui giudichiamo quella di
Washington, e nemmeno quella di Roosevelt o di Nixon.
Ora,
la notizia che non sembra essere ancora arrivata in Italia è che è in corso una
rivoluzione negli Stati Uniti. Non so se tutti approveranno l’uso di questo
termine per indicare un cambiamento radicale di un’intera società allo scopo di
aumentare le ingiustizie sociali, ma è l’unico termine che abbia la
forza espressiva per descrivere ciò che sta avvenendo.
Questa rivoluzione ha basi profonde in una
parte della storia americana, ma nasce anche da fattori del tutto moderni. è
utile guardare a questa rivoluzione come la convergenza tra tre fattori
diversi:
Molto è stato scritto sul ruolo
svolto dagli interessi economici. Ma anche qui si cade a volte in altri errori:
quello di dire, beh, è la globalizzazione; e quello di credere che la
globalizzazione significhi la fine degli stati. Se accettiamo queste
affermazioni, condivise anche dai sedicenti liberisti, possiamo impostare una
bella discussione almeno fino a Natale, No Global contro Sì Global.
Il guaio è che tale discussione sarebbe però fondata su premesse errate.
In realtà, non stiamo parlando di un
astratto capitalismo universale: questo capitalismo è diffuso nel mondo, ma
rimane sostanzialmente un capitalismo statunitense. Sappiamo tutti che
il capitalismo sottostà, a grandi linee, a certe leggi. Ma qui si tratta di
somme di denaro immense, in pochissime mani. Murdoch avrà fatto il suo impero
grazie alle leggi impersonali della finanza, ma intanto Murdoch esiste ed è in
grado lui stesso di creare situazioni che possono rendere ancora più potente il
suo impero. Quindi l’elemento soggettivo conta di più di quello che gli
economicisti sono pronti ad ammettere. è tutt’altro che irrilevante sapere,
come scrive Giulietto Chiesa,[2]
che
L’altro punto fondamentale da capire
è che stiamo parlando del più gigantesco, costoso ed efficiente apparato
statale dell’intera storia umana. è qualcosa che dimenticano facilmente tutti
coloro che esaltano, o comunque credono di constatare, la fine dello stato
nazionale. è solo la nostra, e non la loro, sovranità che scompare.
Ora, questo stato ipertrofico si
chiama, al plurale, Stati Uniti d’America.
Certo, lo stato americano non
soccorre gli affamati e non istruisce le masse. A differenza delle
socialdemocrazie europee, non è quindi un Welfare State - anche perché le funzioni di assistenza sociale vengono svolte soprattutto dalle comunità locali. Lo stato è sempre più un
Warfare State, cioè una macchina enorme il cui scopo fondamentale è
condurre guerre pubbliche per interessi privati. Una macchina mantenuta con i
soldi dei contribuenti, con giochi di prestigio finanziari e con la
depredazione del resto del mondo. Questa macchina non somiglia all’idea comune
di stato, perché è in realtà un connubio inestricabile di apparati pubblici e
di ciclopiche imprese private, di think tank, di monopolisti dei media, sorto
nel dopoguerra e da allora in crescita esponenziale. Insomma, una specie di
guardia pretoriana, il cui scopo è il dominio e il saccheggio, non solo del
mondo esterno, ma anche dello stesso paese che domina.
Quest’ultimo è un aspetto
fondamentale: il Moloch non si limita a bombardare l’Iraq, ma sta
rivoluzionando l’intera società americana, in una maniera che cercherò di
analizzare in un successivo articolo sui cosiddetti “neoconservatori”. E qui
incontriamo un altro errore molto diffuso. Siamo stati abituati a pensare
all’America come la nemica giurata di tutti i grandi progetti di stato etico,
in nome della libertà: nemica del trinomio di “fascismo, comunismo e
islamismo”. Anche su questo, si potrebbe inscenare un dibattito interminabile,
se ci piace l’idea di uno stato che indirizzi la società, o preferiamo invece
il modello americano. Dibattito perfettamente inutile, perché quell’ente
privato/pubblico che possiamo chiamare stato americano indirizza come non mai
la società.
Perché quello che è in corso negli
Stati Uniti è la realizzazione sistematica del più grande progetto utopico di
tutti i tempi, quello che un noto manifesto chiama il “Progetto per un nuovo
secolo americano”. “Progetto” almeno quanto potevano esserlo i grandi piani
sovietici o maoisti. è un fatto che esiste un enorme apparato di persone il cui
lavoro consiste nel consolidare il dominio, ma anche nel ristrutturare il
mondo, sia dentro che fuori gli Stati Uniti. Parlare di queste cose può
suscitare accuse di complottismo, e quindi apro una parentesi.
I
complotti esistono, nel senso che le persone si alleano tra di loro per ottenere
più potere e sanno anche mentire a proposito delle loro finalità, due attività
che condividono peraltro con gli scimpanzé. I complotti, come sa chiunque abbia
assistito alle trattative per una gara di appalto, non sono l’eccezione, ma la
regola. Proprio perché sono la regola, i loro effetti tendono ad annullarsi a
vicenda tra grandi masse di persone che si contendono il potere o il denaro
partendo da basi più o meno paritarie, e questo dà un’aria obbligatoria e
prevedibile a certi fenomeni di concorrenza diffusa. Quando però un piccolo
gruppo di persone detiene poteri soverchianti, le loro decisioni soggettive
assumono un’importanza reale. Forse è vero che le circostanze oggettive
obbligano i dominanti a lanciare guerre; ma oggi è perfettamente possibile per
dieci persone riunirsi in una stanza e decidere, con una certa libertà, se fare
quella guerra domani o tra un anno, e se farla contro l’Iran o contro la Corea
del Nord, con effetti certamente molto
diversi.
Il complottismo invece consiste nel
pensare che esista un unico complotto, che i cospiratori non litighino
mai tra di loro, che nessuno di loro cambi
mai idea, che agiscano per qualche purissimo fine ideale (secondo i
clericali, abolire il cristianesimo; secondo altri, clonare Hitler per salvare
la razza ariana, ecc.), e che riescano a tramandare questo stesso complotto,
immutato, generazione dopo generazione. Non è il caso della tesi che viene
esposta qui, quindi chiudiamo la parentesi.
Parlerò del progetto utopico nella
puntata sui neoconservative. Questi straordinari rivoluzionari si
chiamano così solo per un accidente storico; e infatti è meglio usare la tipica
abbreviazione americana, “neocon”, che ci permette di evitare di confonderli
con qualunque forma di conservatorismo. Gli Stati Uniti sono un paese per certi
versi molto conservatore, anche se non in senso europeo. è quasi banale dire
che l’americano medio è bianco, religioso, recalcitrante di fronte alle tasse.
In un bar in un piccolo paese del remoto stato del Washington, un mio amico ha
visto un cartello che recita, “I don’t trust a government that doesn’t trust
me with a gun”, “non mi fido di uno stato che non si fida di lasciarmi con
un fucile”.[3] Quel barista sull’Oceano Pacifico
probabilmente preferirebbe puntare il suo fucile su un orso o su un nero,
piuttosto che su un lontano vietnamita o iracheno. Per questo il cosiddetto paleoconservative è becero e
razzista, ma non ama né il Welfare State né il Warfare State. E
in qualche remoto angolo di un cervello poco sfruttato, conserva anche una sana
diffidenza verso le élite miliardarie e le multinazionali. Per questo, tra i
“paleocons”, troviamo anche alcuni dei più convinti assertori dei diritti
civili contro le leggi di emergenza di Ashcroft; e troviamo numerosi
oppositori della guerra, tra cui va segnalato il grande Justin Raimondo, che
gestisce quella miniera di informazioni che è il sito www.antiwar.com. Si può
essere d’accordo o no con le idee di fondo di Raimondo, ma rimane il fatto che
lui ha capito quello che sta succedendo negli Stati Uniti molto meglio della
maggior parte delle persone che in Italia si oppongono alla guerra.
I neocon sono tutt’altra
cosa. Anche qui ci sono errore importanti da correggere. Abbiamo visto che non
sono “ultraconservatori”, come la
nostra stampa, le rare volte che ne parla, li definisce; inoltre, non sono
“intellettuali”; e non sono nemmeno tipicamente “americani”. Sono i tecnici
del dominio della nuova rivoluzione americana che uniscono lo spirito
tecnocratico americano con idee elitarie e stataliste di origine prettamente
europea. Sono loro che stanno rivoltando come un guanto la vita degli stessi
americani, oltre che di tutto il resto del mondo.
Ora, se l’americano medio si
percepisce come nemico del big government, come fanno a coinvolgerlo
nella guerra infinita, e come fanno a far passare quasi senza discussione
l’abolizione dei fondamentali diritti umani nel paese?
Le risposte sono diverse: accennerò
solo a due, per poi passare a una terza risposta.
Il primo elemento è la paranoia di
massa, quella che Michael Moore ha smascherato in Bowling for Columbine. Per
una serie di motivi storici e sociali, gli americani hanno paura; e alla paura
si reagisce compattandosi attorno a un capo e sterminando i nemici. La
creazione di uno stato di panico costante attorno al “livello di allarme
terrorismo del giorno”, le scene di uomini mascherati alle prese con inesistenti
batteri e sostanze chimiche, le continue esercitazioni, risvegliano
inconsciamente le infinite fobie che caratterizzano la vita americana.
Basti pensare a una gentilissima
signora che conoscevo a Roma, impiegata dell’ambasciata americana. Si parla di
oltre vent’anni fa, ma già allora lo stato americano funzionava, anche se in
piccolo, secondo gli stessi principi, impiegando orde di funzionare per imporre
con la forza pubblica gli interessi privati. Infatti, questa piccola
funzionaria aveva il compito specifico di persuadere l’Italia a lasciar marcire
le mandorle sugli alberi siciliani importando invece mandorle statunitensi. Ma
quello che mi è rimasto impresso era il suo appartamento, pieno di immagini di Padre Pio e di Sant’Antonio da
Padova. E con le finestre sempre chiuse “per non lasciar entrare i germi”.
Il secondo elemento che crea
consenso sta, paradossalmente, nella natura antisociale della nuova rivoluzione
americana. Che abolisce davvero il Welfare State. Il barista dello stato
di Washington può godere di almeno tre soddisfazioni: si elimina una volta per
tutte il super-superstato temuto da tanti americani, l’ONU; lui potrà avere
tutti i fucili che vuole – e da un po’ di mesi anche i fucili automatici;
infine, anche se dovrà pagare più tasse per la guerra, almeno non dovrà più
aiutare a garantire un’istruzione pubblica decente ai figli del nero
disoccupato che abita nel suo stesso paesino.
Esiste un terzo elemento,
profondamente intrecciato con questi due, che però merita un trattamento a
parte: il fondamentalismo di massa. Un elemento davvero importante in quello
che è il paese più religioso del mondo, se facciamo eccezione, forse, per
l’Arabia Saudita.
E a questo elemento sarà dedicato il
secondo saggio della serie.
Sommersi
come siamo da informazioni e stimoli, è necessario mettere a fuoco i punti
essenziali.
Il mondo ha mille problemi, è ovvio.
Ma il problema cruciale è il problema americano e non uno degli altri
novecentonovantanove problemi che pure esistono.
Va benissimo fare storia, ma non è
fondamentale capire in questo momento come siano nati gli Stati Uniti, o se ci
hanno salvati durante la Seconda guerra mondiale, o cose simili. è importante
capire quello che sta succedendo invece oggi in quel paese.
Qualcuno ha parlato di un vero e
proprio colpo di stato.
L’espressione
“colpo di stato” è salutare, perché ci risveglia dal torpore: siamo di fronte a
un paese in cui un presidente per meriti ereditari, imposto contro la volontà
dell’elettorato, ha creato leggi speciali per cui le persone possono scomparire
nel nulla, senza accusa e senza processo. Ma la nozione di colpo di stato è
anche fuorviante, perché non abbiamo a che fare con il colpo di coda di una
piccola cabala di cospiratori, ma con una vera e propria rivoluzione.
Negli Stati Uniti, una ristretta
élite, che possiede mezzi economici mai visti nella storia, sta guidando una
trasformazione radicale. Che implica la presa del potere da parte di una
gigantesca macchina parastatale, costituita dal sistema militare, dalle grandi
imprese e dai tecnici del dominio. Non è successo dall’oggi all’indomani, la
guardia pretoriana è vecchia di decenni; ma il processo si è accelerato molto
negli ultimi anni.
Anche se i suoi ideali sono esattamente
contrari a quelli del progetto comunista, si tratta del più grande disegno
utopico partorito dopo il 1917. Solo che questa volta non parte da masse
diseredate, ma da coloro che detengono quasi tutto il potere militare ed
economico del mondo.
Per crearsi un consenso, la guardia
pretoriana adopera tutti i meccanismi psicologici e sociali dell’immaginario
americano; ma non è semplicemente un sinonimo di un’America astratta. La
guardia pretoriana non è semplicemente un’emanazione dell’America primitiva,
quella dei linciaggi e degli stivaloni, per capirci. Di per sé, l’America
primitiva può risultare insopportabile per i neri o gli immigrati, ma non è
certamente in grado di produrre un’ideologia forte o un sistema di dominio
universale. Il nemico universale non è Humphrey Bogart, ma non è nemmeno il
texano con la macchina decorata da corna di bisonte con la Bibbia sul
cruscotto, l’uomo “volgare ma onesto” decantato da Oriana Fallaci, in contrasto con
i presuntuosi europei.
Al contrario, la guardia pretoriana è
un’entità tutt’altro che primitiva, grazie anche all’apporto culturale europeo
dei neocon.
Ma la guardia pretoriana sa
manipolare tutte le strutture fondamentali della società e della cultura
americana, comprese quelle dell’uomo “volgare ma onesto”. L’americano medio, in
termini concreti, ha poco da guadagnare dall’impero; e quindi la mobilitazione
di massa degli americani medi a sostegno dell’impero deve essere letta, che
piaccia o no, anche in termini di manipolazione dell’immaginario. In
particolare, dell’immaginario religioso. E ciò richiede una comprensione del
fondamentalismo di massa americano.
[1] Antonio Pellicani Editore, Roma 1990.
[2] In Superclan,
p. 38, ed. Feltrinelli, 2003. Chiesa fa riferimento all’élite non solo americana,
e fa bene; ma certamente questa élite è soprattutto americana, e comunque
totalmente legata alle sorti degli Stati Uniti.
[3] La parola
“government” è all’incirca l’equivalente del nostro “stato”.
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