L'esistenzialismo e Jean-Paul Sartre


V e ultima parte
 



Per agevolare la lettura, questo articolo di Costanzo Preve, apparso per la prima volta sulla rivista Praxis è stato diviso in cinque parti.

Alla prima parte




22. Vi è qui un importantissimo rilievo teorico da fare. Se infatti un marxismo esistenzialistico di tipo sartriano è potuto esistere ed è in effetti esistito per alcuni decenni, sia pure sulla base dell'equivoco della compatibilità fra la teoria marxiana dei rapporti di produzione e la teoria sartriana della Cosa, un marxismo heideggeriano non può semplicemente esistere, ed è una contraddizione in termini, come lo potrebbe essere un cristianesimo ateo, uno spinozismo trascendente o un platonismo materialistico. Vi sono stati, è vero, dei tentativi di creare un marxismo heideggeriano, come quello del pensatore greco Kostas Axelos, ma essi si sono basati sull'equivoco dell'interpretazione del concetto heideggeriano di Tecnica come semplice dominanza estrema della tecnologia e dell'organizzazione. Ma il concetto heideggeriano di Tecnica non ha nulla a che fare con ciò che si intende generalmente con questo nome nel linguaggio comune, ma indica un vero e proprio destino storico di svuotamento integrale della progettualità storica non solo proletaria o borghese, ma generalmente umanistica. Esso indica una sorta di impotenza storica integralmente immanente alla modernità, ed ormai del tutto irreversibile. In questo senso un marxismo heideggeriano è impossibile, perché non c'è più marxismo se si assume l'impotenza storica alla trasformazione non solo come dato passeggero, attuale e congiunturale (se così fosse, non potremmo non essere tutti ragionevolmente heideggeriani nei presenti chiari di luna politici!), ma come dato permanente ed irreversibile della modernità. Il marxismo è, prima di ogni altra cosa, dichiarazione di possibilità ontologico-sociale della trasformazione storica, e non può diventare una teoria dell'impotenza storica senza suicidarsi.

23. Incidentalmente, è questa la ragione per cui riflessioni come quella di Gianfranco La Grassa non possono essere in nessun modo assimilate ad una forma di marxismo heideggeriano implicito. Come è noto, La Grassa sostiene una tesi radicale sulla natura dell'impresa capitalistica come centro di coordinamento strategico della riproduzione capitalistica incompatibile con una teoria dell'impresa come luogo di formazione virtuosa di un lavoratore cooperativo associato, oltre a sostenere diversi punti di vista di tipo in un certo senso "pessimistico" sul fatto che in breve per ora "non ce la facciamo e non possiamo per nulla farcela" in un progetto anticapitalistico di tipo strategico che vada oltre la normale e fisiologica resistenza. Ma La Grassa non giunge a questa tesi teorica (da me per altro condivisa nei suoi tratti essenziali, anche se non in tutti i dettagli) sulla base di una commistione fra Marx e Heidegger, ma sulla base di una vera e propria ortodossia metodologica marxista assolutamente rigorosa, senza nessuna adozione di categorie heideggeriane. Paradossalmente, l'ottimismo infondato di Toni Negri sulla formazione di moltitudini rivoluzionarie ispirate ad un intelletto sociale potenzialmente anticapitalistico ed il fondato pessimismo di La Grassa sull'inesistenza presente di queste presunte moltitudini hanno entrambi la stessa base in due interpretazioni alternative della stessa ortodossia marxologica. Non è un caso che ceti politici professionali pienamente integrati nel sistema politico capitalistico, come quello che in Italia fa capo a Fausto Bertinotti, esaltino Negri ed ignorino La Grassa, perché la menzogna funzionale alla mobilitazione ideologica di masse di creduloni è sempre preferita alla verità interpretata come inservibile per la mobilitazione degli stessi creduloni. Si è dimenticato l'insegnamento di Antonio Gramsci, per cui solo la verità è rivoluzionaria, e si pensa che la menzogna illusoria e mobilitante sia migliore del provvisorio disincanto basato su incontrovertibili dati di fatto. E così il movimento no-global, contro ogni logica storica e contro ogni buon senso, è dichiarato successore del vecchio movimento operaio e socialista responsabile della fine pietosa e penosa del comunismo storico novecentesco. C'è qui molto più stalinismo di quanto si possa pensare a prima vista, se lo stalinismo è individuato, secondo l'insegnamento di Lukács, nella prevalenza delle esigenze della tattica politica congiunturale su quelle della strategia.

24. A queste fughe in avanti è del tutto vano opporre, come avviene nel dibattito teorico interno al Partito della Rifondazione Comunista, una sostanziale difesa della continuità storica con l'esperienza del movimento comunista storico novecentesco. Si tratta di una trincea destinata ad essere travolta senza scampo, e si veda in proposito la piattaforma culturale della rivista L'Ernesto e le posizioni di intellettuali come Burgio e Lo Surdo. Nell'essenziale, la fuga in avanti avveniristica ed il conservatorismo continuistico sono due poli in solidarietà antitetico-polare, esattamente come ho rilevato nel paragrafo 8 a proposito dell'esistenzialismo e del neopositivismo. Un superamento di entrambe queste posizioni unilaterali è la premessa per ogni cultura comunista dell'immediato futuro.

25. Si tratta appunto ora di vedere se una riflessione generale di bilancio su Sartre, Heidegger ed i rapporti fra esistenzialismo e marxismo possano dare indicazioni utili al nostro orientamento teorico e pratico nella situazione presente. Concluderò allora questo breve intervento con una serie di rilievi di questo tipo.

26. Il contesto in cui si sviluppò l'attività di fiancheggiamento del marxismo esistenzialistico integrativo di Sartre al movimento comunista fra il 1945 ed il 1975 non può essere a mio avviso più riattivato e rinnovato, per il fatto di essere ormai storicamente concluso e conchiuso. Da un lato, nessun movimento comunista potrà a mio avviso mai più risorgere sulla base di una metafisica sociologica del proletariato e sulla base di un monopolio del partito-stato sulla sfera complessiva della riproduzione sociale. Dall'altro, il gruppo sociale degli intellettuali non è più oggi in situazione sartriana, ma si trova ad essere estremamente corrotto e manipolato nella sua integrazione al moderno imperialismo a dominanza imperiale americana. E' però bene dire che vi sono aspetti positivi dell'orientamento di Sartre che possono essere ancora oggi valorizzati, e ne ricorderò qui uno solo. A suo tempo, Sartre seppe dire in modo chiaro e forte che gli oppressi hanno diritto ad una resistenza assoluta contro gli oppressori imperialisti (anche se a mio avviso non capì mai che i palestinesi erano ancora più oppressi degli algerini, e questo per il pregiudizio aprioristico filoebraico tipico della sinistra tradizionale europea). Oggi, di fronte agli eventi drammatici succeduti all'11 settembre 2001 ed all'attacco agli USA, indipendentemente da ogni valutazione di merito su questi attacchi, prevale una visione "complottistica" che inquadra questi attacchi in attività della CIA americana, o del MOSSAD israeliano, o di dietrologie capitalistiche diverse. In questa deriva dietrologica, indipendentemente dalla sua eventuale pertinenza su punti specifici, io vedo l'oblio e la dimenticanza di un fatto che ai tempi di Sartre appariva ancora visibile, e cioè che popoli e nazioni oppresse a volte si ribellano, sia pure a modo loro e con i mezzi che sono loro a disposizione. Non si tratta di approvare tutti questi mezzi, e neppure di giustificarli sul piano morale o politico. Si tratta però di non regredire ad una situazione precedente a quella in cui si mosse Sartre, e di capire il fatto elementare che i mezzi storici estremi impiegati dal colonialismo imperialistico possono provocare reazioni estreme. Niente di più, ma anche niente di meno.

27. A proposito della diagnosi di filosofia della storia di Heidegger sull'esito tecnico della lunga storia della metafisica occidentale da Platone a Nietzsche un rilievo si impone sopra tutti gli altri. Non è un caso a mio avviso che il più dotato divulgatore di questa diagnosi, il filosofo Umberto Galimberti, l'uomo che ha riassunto in poderosi volumi questa diagnosi chiarendola in tutti i suoi aspetti, sia ridotto a tradurne le modalità esistenziali concrete nella piccola posta delle riviste femminili. Non si tratta affatto, o almeno non principalmente, del fatto che gli intellettuali prestigiosi integrano il loro reddito con collaborazioni giornalistiche, in nome del detto del grande Vespasiano, per cui pecunia non olet. Qui vi è qualcosa di molto più sintomatico e degno di riflessione. Vi è infatti un rapporto dialettico fra la montagna che partorisce un topolino, e cioè fra la maestosa analisi heideggeriana della potenza schiacciante del dominio tecnico ed economico in cui siamo avvolti (la montagna), ed i consigli di saggezza perbenisti e minimalisti che si danno in nome di questa diagnosi alle gentili lettrici (il topolino). Una maestosa filosofia della storia che mobilita tutte le risorse storiografiche della filosofia occidentale per concretizzarsi in una dichiarazione di impotenza ed in una diagnosi infausta verso ogni reale impegno politico collettivo di trasformazione radicale non può che finire, come suo esito conclusivo, nei consigli pratici della piccola posta delle riviste femminili, in questo caso l'allegato dell'organo dell'antiberlusconismo laico e massonico, la disincantata Repubblica. Questa sproporzione, lo ripeto, è certamente grottesca ed anche un pò comica, ma è assolutamente logica: una diagnosi di impotenza radicale della trasformazione storica è solidale con una terapia di consigli psicologici di tipo minimalistico. Vi è qui qualcosa su cui tutti gli heideggeriani sono chiamati seriamente a meditare.

28. I vecchi esistenzialisti, da Heidegger a Sartre, indipendentemente dalle loro posizioni politiche, hanno vissuto nel contesto storico del primato della politica che caratterizza il "secolo brevissimo" che va da l 1914 al 1975 circa. Ma dopo il 1975 si innesca quel processo progressivo di primato dell'economia che è riduttivo chiamare "neoliberismo", perché si tratta di un qualcosa di più organico e profondo. Non si tratta soltanto del regno incontrollato del valore di scambio, ma di una generale mobilità dei capitali e di una inarrestabile flessibilità del lavoro che fanno da base per un individualismo di tipo nuovo. Il precedente individualismo era un individualismo della piccola borghesia e della sua coscienza infelice, ed era un individualismo che si orientava spontaneamente verso l'impegno politico, di destra o di sinistra. Ma questo nuovo individualismo è un individualismo di una nuova classe media globale deterritorializzata e sradicata, fortemente influenzata dai modelli di consumo dei media, che non si orienta più verso l'impegno politico, e tende anzi irresistibilmente ad accettare le diagnosi del post-moderno e della fine della storia (per una più ampia analisi mi permetto di citare Costanzo Preve, Il tempo della ricerca, Vangelista, Milano, 1993).

E' interessante notare che mai come oggi sembrerebbe che la filosofia della reificazione e dell'alienazione dovrebbero essere di estrema attualità, visto il dominio anonimo e cosale dell'economia. Ma esse sono invece in ritirata, e non solo per il tradimento del corrottissimo ceto universitario ed editoriale, ma per il fatto che presumevano pur sempre uno scenario di possibile emancipazione e superamento del modo di produzione capitalistico. Si è dunque di fronte ad uno scenario completamente nuovo.

29. A parole tutti concordano sul fatto che lo scenario storico in cui viviamo è completamente nuovo, ma poi di fatto regna il continuismo teorico più rozzo, naturalmente nascosto sotto travestimenti posticci. La dittatura dell'economia ed il monoteismo del mercato, in sinergia con l'implosione tragicomica del comunismo storico novecentesco, non producono soltanto un nuovo scenario economico, politico e culturale. Producono anche un nuovo scenario antropologico, e qui dovrebbe appunto intervenire quel discorso filosofico che alcuni decenni fa fu egemonizzato dall'esistenzialismo. Questo nuovo scenario antropologico è indagato molto meglio da pensatori accademici non legati alla militanza, da Harvey a Jameson, da Lasch a Bauman, di quanto non sia da pensatori ancora militanti, ma troppo invischiati nelle tattiche delle linee politiche di organizzazioni gestite da scandalosi analfabeti teorici, come coloro che danno credito alle affabulazioni di Toni Negri come se fossero l'ultimo grido del pensiero comunista.

All'inizio degli anni Novanta, scrissi per l'editore Vangelista di Milano una trilogia teorica (cfr. Il Convitato di pietra, il Pianeta Rosso e L'Assalto al cielo), che era in realtà un solo volume orientato ad una radicale rifondazione filosofica del discorso comunista. A distanza di dieci anni non ho mutato opinione, ma ho certamente le idee più chiare sulle difficoltà quasi insormontabili che si incontrano e si incontreranno per far passare un mutamento qualitativo radicale nel discorso comunista. In quella trilogia ci si soffermava sui tre temi del nichilismo, dell'universalismo e dell'individualismo, e penso che anche oggi si tratti di tre nozioni centrali per un delicato passaggio teorico di fase.

Il vecchio nichilismo si manifestava in due forme diverse. Da un lato, si trattava di uno smascheramento dell'ipocrisia della morale borghese e di una richiesta di azzeramento di ogni fondamento etico della società, considerato espressione di decadenza (e Nietzsche ne è il principale esponente). Dall'altro, si trattava della fondazione storicistica del comunismo in una forma di progressismo deterministico a finale garantito. Questi due nichilismi, diversissimi l'uno dall'altro, fanno però entrambi parte di uno scenario storicamente trascorso. Il nuovo nichilismo è pienamente incorporato nella dittatura dell'economia, e tende a produrre un vero e proprio mostro antropologico che si determina esclusivamente attraverso il suo rapporto con il mercato, solo demiurgo dei desideri e dei bisogni. Il vecchio universalismo si manifestava anch'esso in due forme diverse. Da un lato, l'universalismo borghese di tipo illuministico. Dall'altro, l'universalismo proletario basato sulla classe operaia diretta dal partito. Un nuovo universalismo non potrà che essere realmente mondiale, superando il mito eurocentrico-secondinternazionalista del proletariato ed il mito sovietico-novecentesco del partito. Il vecchio individualismo si coagulava intorno alle identità della borghesia e della piccola borghesia. Il nuovo individualismo vuol fare leva su di una classe media globalizzata e deterritorializzata, priva di memoria storica e definita unicamente dal consumo. Come si vede, lo scenario antropologico è nuovo.

30. In questo scenario antropologico completamente nuovo, non vedo la possibilità e l'utilità di una ripresa dei vecchi dibattiti fra marxismo ed esistenzialismo. essi fanno parte di uno scenario storico integralmente trascorso e conchiuso. Ma è necessario conservare la memoria critica di questi dibattiti, perché è indubbio che certe costellazioni di pensiero si ripresenteranno, sia pure in forma mutata ed a prima vista irriconoscibile.



Alla prima parte





Gli articoli apparsi originariamente su questo sito possono essere riprodotti liberamente,
sia in formato elettronico che su carta, a condizione che
non si cambi nulla, che si specifichi la fonte - il sito web Kelebek http://www.kelebekler.com -
e che si pubblichi anche questa precisazione
Per gli articoli ripresi da altre fonti, si consultino i rispettivi siti o autori




e-mail


Visitate anche il blog di Kelebek

Home | Il curatore del sito | Oriente, occidente, scontro di civiltà | Le "sette" e i think tank della destra in Italia | La cacciata dei Rom o "zingari" dal Kosovo | Il Prodotto Oriana Fallaci | Antologia sui neoconservatori | Testi di Costanzo Preve | Motore di ricerca