LA POLITICA DELLA SCUOLA NEI PRIMI ANNI DEL REGNO D'ITALIA
Da quanto abbiamo visto nel precedente paragrafo, il problema di gran lunga più importante che dovettero affrontare i primi governi fu quello dell'abnorme situazione dell'analfabetismo del Paese con punte drammatiche nel Meridione. Questo problema era strettamente connesso ai rapporti dello Stato con la Chiesa: senza Porta Pia non si sarebbe mai potuto affrontare. La cosa ebbe un qualche sviluppo per i pochi anni che divisero l'Unità d'Italia dal Concordato. Poi ...
Se si analizzano in modo storico-critico le vicende che portarono alla nascita dello Stato unitario ci si rende subito conto che il problema è sempre stata la Chiesa che, a seconda delle esigenze, sfruttava ora le divisioni interne tra gli Stati preunitari ora reclamava l'intervento di Paesi stranieri. In questo modo l'Italia restava divisa e cioè restava un ottimo terreno di pascolo per le greggi della Chiesa. Così si accentuava una dicotomia solo nostra (la Spagna viveva problemi diversi per essere stata un Paese imperiale): da una parte i più illuminati (non nel senso di Illuminismo) interpreti del Risorgimento si rendevano via via conto che occorreva, con l'Unità, colmare il divario tra l'arretratezza italiana e l'esuberanza dell'Europa e si rendevano conto del ruolo importante che la scuola avrebbe potuto avere non certo per l'educazione alle lettere ed alle arti; dall'altra ci si doveva confrontare con posizioni paleoculturali che tentavano la difesa solo di privilegi di casta e presuntamente dinastici, privilegi che si sarebbero presumibilmente conservati solo nel mantenimento della popolazione in uno stato di totale ignoranza. Questa dicotomia fu dapprima espressa in termini politici dallo scontro tra clericali e liberali, e subito dopo dallo scontro dei primi con una parte dei liberali (visto che gli altri erano stati cooptati dal clero). In tutto questo era proprio la scuola, o meglio la sua mancanza, che permetteva l'agile dispiegarsi dei rappresentanti politici da una parte dello schieramento all'altra in quella stagione, mai morta, del trasformismo. Sullo sfondo di scelte politiche che, all'epoca, sarebbero state cruciali, non vi erano mai le questioni economico-sociali da sole ma anche e forse soprattutto le questioni metafisiche. Questa contraddizione non è un'anticaglia messa in soffitta: ancora oggi la paghiamo in termini di arretratezza, emigrazione intellettuale e scarsa competitività del nostro Paese. Su questi temi, purtroppo non secondari, ebbero ad esprimersi le migliori menti del nostro Risorgimento. Alessandro Parravicino, nell'epoca entusiasmante dei Congressi degli Scienziati Italiani (SIPS, Società Italiana per il Progresso delle Scienze) iniziata a Pisa nel 1839 e mal sopportata da ogni governo preunitario, sostenne al V congresso (1843) [7]:
Ciò che resta ancor più a desiderare è un perfezionamento alle arti italiane, che le abiliti a produrre presto e bene quelle merci che, pagando noi il tributo dell'ignoranza all'industria degl'Inglesi, de' Francesi, de' Belgi, de' Tedeschi, ci costano milioni e milioni di lire ogni anno. Chi in Italia sa applicare il gas all'illuminazione? Chi la forza gigantesca del vapore alle arti? Chi sa costruire le macchine più utili alle manifatture del lino e del cotone? Pochi forestieri; e più pochi de' nostri. Mercé le scuole tecniche sparse nelle città più popolate d'Italia abbiam bisogno di farci nostro comune patrimonio questi importanti trovati; abbiam bisogno di fortificare colla scienza, in questa universale gara di produzioni, le speculazioni del manifattore, del commerciante, dell'agricoltore.(...)
Senza scuole tecniche secondarie, la tecnologia non può diventar popolare; e le vostre dotte opere, o Signori, saranno ammirate dai sapienti nelle biblioteche, ma non entreranno nelle officine, se le scuole tecniche non avranno apparecchiato le menti degli operatori a comprenderle.
E della cosa, applicare il lavoro alla scienza, si preoccupava anche Cattaneo nel Politecnico dove più volte aveva sostenuto:
[Occorre] promuovere ad un tempo lo studio delle scienze e il perfezionamento dell'industria e dell'agricoltura coordinando ad un medesimo intento le braccia degli artefici e le menti degli studiosi.
E le cose che sosteneva Cattaneo non era delle mere invocazioni di buona volontà ma rivendicazioni che nascevano da studi ed analisi approfondite. Nota, in proposito, Lacaita [7]:
Nella sua concezione democratica l'espansione dell'istruzione e di quella tecnico-professionale in particolare assumeva il valore e la funzione di elevare a nuova dignità civile le « umili fatiche dell'officina » e di liberare gli operai dalla « condizione di semoventi ordigni d'un'arte non intesa ». Ma ciò che va ulteriormente aggiunto in questa sede è che il Cattaneo si preoccupò anche di dimostrare l'importanza dell'apporto dato allo sviluppo dall'istruzione, la cui diffusione era perciò da lui sostenuta non con generiche e astratte perorazioni, ma con ben fondate analisi dei vantaggi sociali e individuali, sia di ordine economico che di ordine civile. Calcolando nel 1839 il costo dell'istruzione elementare dei fanciulli lombardi in età scolare, notava che il paese « nel contribuire per tre o quattro anni all'istruzione d'un fanciullo del popolo, colloca a frutto circa una trentina di lire, ossia investe una rendita perpetua di forse mezzo centesimo al giorno ». «Ora — continuava lo scrittore lombardo — si consideri quanto valga di più un operaio, od una madre di famiglia, che sappia leggere, scrivere e conteggiare, in confronto d'un essere idiota! Si consideri se la sua giornata non vale il mezzo centesimo e non lo ammortizza! Ora tutto quello che vale di più, è tanto di guadagnato per il paese e per il lavoratore ». E concludeva: «Se gli uomini fanno le cose, ogni miglioramento delle cose deve aver principio da un miglioramento negli uomini ». Dove non è soltanto affermato l'incremento della produttività del lavoro dovuto all'istruzione, ma, col «miglioramento degli uomini» è richiamata globalmente la sua teoria dei fattori non « fisici » dello sviluppo, dal pensiero alla volontà, dalle invenzioni tecnologiche e scientifiche all'intraprendenza degli individui, dalle istituzioni sociali ai movimenti culturali e ideologici, tutti direttamente o indirettamente influenzabili e modificabili mediante l'istruzione.
A queste elaborazioni avanzatissime rispetto al substrato culturale ed ai nemici del progresso civile, si accompagnavano moltissime pubblicazioni che iniziarono a rendere edotti i ceti medi e gli strati popolari più evoluti della necessità di una educazione tecnico-scientifica. Per parte loro i reazionari, nobiltà e clero come sempre, si esprimevano come il conte Monaldo Leopardi [7]:
Ci è forse necessità sbracciarsi per ficcare in ogni angolo di tutti i cervelli umani i teoremi e corollari delle scienze e non ci vorremo mai persuadere che è d'uopo sapere con sobrietà e che la tanta diffusione dei lumi deve finire con l'abbruciamento della casa? Forse i nostri padri, da sessanta secoli in qua, non sono andati calzati e vestiti perché i sarti e i calzolai non conoscevano le regole della meccanica? [...] Noi crediamo che in addietro le cose siano andate abbastanza bene ed adesso vadano abbastanza male e crediamo che chiunque presiede al governo dei popoli debba porre attenzione a quel diluvio di miglioramenti sociali che ci fa stare ogni giorno peggio di prima e debba guardare con occhio estremamente sospetto qualsivoglia aspetto di novità.
e come il cardinale Lambruschini rivolgendosi a suo nipote [7]:
Quanto avreste fatto meglio se invece di aprire una scuola di Geometria per li poveri di Figline ne' dì festivi [...] li aveste invece raccolti per udire in tali giorni pie e sode istruzioni che insegnasser loro ad essere buoni e perfetti cristiani! [...]
L'amore indiscreto che si mostra oggidì di generalizzare l'istruzione e la cultura mira non a migliorare la società, ma a infelicitarla. Si accenda pur l'orgoglio delle classi ultime (destinate dalla Provvidenza ad esercitare arti e mestieri) con un superficial sapere e si vedrà quali frutti produrrà un così calcolato sistema.
Abbiamo già visto che la Legge Casati non affrontava in alcun modo questo problema e che scarsi furono le novità nelle legislazioni immediatamente successive sempre perché in Italia occorreva guardare al corno metafisico del problema.
Abbiamo già detto che il fondamento di tutto era la trascurata scuola elementare e che essa era stata affidata ai comuni. Ma che entità erano i comuni negli anni 60 dell'Ottocento ? Vi erano in Italia 8789 comuni, dei quali 7807 avevano meno di 5000 abitanti. Certamente non si disponeva di risorse per mantenere una scuola dell'obbligo. Inoltre questi comuni erano in mano a sindaci reazionari (si tenga conto che nel 1865 in Italia solo il 4% della popolazione aveva il diritto di voto esercitato da circa il 30% degli aventi diritto) che male vedevano l'emancipazione popolare. Il contributo dello Stato era infimo e, sul territorio nazionale, divenne di circa il 13% delle spese complessive solo nel 1904 che rappresentava solo il 3,9% delle uscite complessive dell'intero bilancio dello Stato. Ancora nel 1910 Francesco S. Nitti sosteneva che occorreva arrivare almeno ad un spesa di 5 lire per abitante mentre essa era ferma ad una sola lira e, per molti comuni, anche meno.
Con la caduta della destra storica al governo del Paese, nel 1876 si cimentò con la scuola la sinistra, con la Legge Coppino (luglio 1877). La novità più saliente di tale legge, rispetto alla Casati, era il prevedere delle sanzioni nei riguardi delle famiglie che non rispettavano l'obbligo scolastico (che da due anni passa a tre) e dava delle norme precise per i comuni. I fondi messi insieme dalle multe per l'evasione dall'obbligo andavano a costituire un fondo per assistere gli alunni diligenti. Qui nasce subito una contraddizione. Chi evade è il più povero ed il più diligente è il più delle volte un benestante: i poveri agevolano gli studi ai ceti medi. La contraddizione viene sanata in un modo pietoso: nel Regolamento applicativo (ottobre 1877) viene esplicitamente previsto che le famiglie più povere sono esonerate dall'obbligo scolastico! In definitiva questa norma annulla in gran parte l'impatto positivo della legge che pure ha effetti importanti nelle regolamentazioni per i comuni.
I risultati delle nuove regolamentazioni, a sei anni di distanza, nel 1883, saranno i seguenti: sul totale dei comuni indicati precedentemente, 90 risultavano ancora privi di scuole, 306 avevano adempiuto parzialmente all'obbligo, solo 1814 avevano le scuole elementari di grado superiore (il secondo biennio). In totale 1.351.490 fanciulli in età scolare non erano in grado di frequentare la scuola elementare dell'obbligo. Si era passati però, in circa 20 anni di Italia unita, da un 37 ad un 58% di iscritti, tra i 6 ed i 12 anni, alla scuola elementare, ad un aumento delle aule pari ad un terzo e ad un importante incremento delle attrezzature.
A dieci anni dalla Coppino, un regolamento del 1888 (Programmi Gabelli), permette la costituzione di Patronati scolastici da parte delle persone più importanti del comune scolastici con il fine di dare aiuto (abiti, libri e materiale vario, offerto o acquistato dal comune e dalla carità delle istituzioni e dei cittadini) ai fanciulli meno abbienti nella frequenza scolastica (osservo di passaggio che, mentre nella Legge Coppino si parlava solo dei doveri dei cittadini, nei Programmi Gabelli si parlerà dei diritti e dei doveri del cittadino). In 10 anni i Patronati dettero poca prova di sé: se ne misero su 844 e la carità era l'unica cosa che furono in grado di fare. Dietro l'operazione vi erano scelte politiche poco rassicuranti. I poveri dovevano accettare la loro condizione, sottomettersi al ricatto, assumere atteggiamenti di gratitudine verso gli abbienti. Il Ministero considerava i Patronati degli strumenti di pacificazione sociale. Ciò è detto più brutalmente da varie relazioni che arrivavano al Ministero dalle periferie del Regno [6]:
E' dunque assolutamente necessario che le classi povere non si lascino trascinare; è assolutamente necessario che esse si abituino a riconoscere nel governo e nelle autorità costituite i propri e veri legittimi rappresentanti e tutori. (...)
[I meno abbienti non devono in alcun caso pensare che] l'aiuto delle autorità e degli abbienti verrà ad essi tanto più largo e spontaneo, quanto meno essi vi pretenderanno come a cosa loro dovuta
Ed il ricatto non è un mero esercizio teorico, una vaga minaccia, se dall'ispettore di Bologna arriva questa comunicazione:
Il lavoro di propaganda per i patronati, che già con qualche successo erasi cominciato in buon numero di comuni del basso bolognese, fu sospeso a cagione degli scioperi che vi scoppiavano, i quali indisposero i ricchi e gli agiati contro i poveri.
La spinta delle organizzazioni politiche della sinistra, spingerà al cambiamento di queste cose. Credaro, il futuro ministro, farà istituire a Pavia la Cassa per la Refezione scolastica degli alunni poveri delle scuole elementari accompagnandola da una relazione che, tra l'altro, diceva:
nella sua caratteristica fondamentale non è beneficenza, sibbene integrazione necessaria [della] lezione del maestro (...). Il nuovo istituto scolastico non deve essere frutto di sentimentalismo o di vaga pietà della miseria umana, ma il portato della nuova pedagogia scientifica, il soddisfacimento razionale di una necessità didattica e sociale e un calcolo finanziario.
E sarà proprio Credaro, divenuto ministro, che nel 1911 trasformerà i Patronati in enti di diritto pubblico che i comuni dovranno istituire obbligatoriamente. Anche qui vi sarebbe da discutere sul ricatto che si trasferisce ... ma accettiamo questo come un sostanziale passo avanti.
L'ultimo ventennio del secolo, non si può far finta che la cosa non sia esistita, è un periodo di profonda crisi economica. La disoccupazione aumenta vertiginosamente, soprattutto nelle campagne, inizia la tragica, malinconica e massiccia emigrazione italiana verso l'America, Paesi europei più ricchi, ma anche dal sud al nord e dall'est all'ovest d'Italia. A questo disastro si accompagnano le emergenti necessità dell'industria manifatturiera che richiedono proprio bambini per le loro produzioni (piccola statura e piccole dita per infilarsi nelle macchine e per sbrogliare con le loro mani fili che si intrecciassero). Ma vi era anche il motivo principe che richiamava i bambini nell'industria: i bassi salari e la docilità della mano d'opera. Solo nel 1886 una legge vietò il lavoro ai bambini minori di 9 anni ! Tale limite nel 1902 passerà a 12 ma queste leggi passarono del tutto inapplicate in modo che poté continuare l'atroce abuso del lavoro dei fanciulli (Giolitti). Vi fu un crescendo di lotte operaie che, a fine secolo (1898), portò ad eccidi di piazza ed alla definitiva diffidenza padronale nei riguardi del popolo che, intanto, si era organizzato nel Partito Socialista e nei Fasci siciliani. Ciò ebbe come conseguenza l'avversione degli abbienti reazionari verso l'istruzione popolare (nel 1894 gli industriali siciliani richiesero esplicitamente l'abolizione delle scuole elementari). Tale avversione portò alla bocciatura della Legge Baccelli (1898) che realizzava un collegamento più stretto tra scuola elementare e scuola tecnico-professionale. La borghesia vive una grande contraddizione: per il suo sviluppo occorrono operai specializzati ma specializzare degli operai è preparare degli antagonisti al suo potere. Ma anche i socialisti fanno cose incomprensibili. Come spesso loro accade debbono fare i realisti, molto più del re. La posizione del Partito Socialista sulla scuola popolare venne enunciata nel 1897 al Parlamento da Agostino Berenini: la scuola elementare doveva essere nettamente differenziata secondo le classi. Il punto principale del suo programma per la scuola era la separazione degli studi in due filoni, uno per coloro che continueranno a studiare, l'altro esclusivamente per le classi lavoratrici. Ed il doppio binario che diventerà legge (1904) verrà salutato come un successo delle masse proletarie (i socialisti pensavano che una scuola unica avrebbe rappresentato un aggravio pesantissimo per il bilancio dello Stato, che sarebbe stato pagato soprattutto dai lavoratori che, in compenso, non avrebbero guadagnato un granché).
Altra vicenda che sarebbe da seguire è quella sugli orari che discese dalla Legge Coppino come contenzioso con la Chiesa (ancora!) relativamente all'insegnamento della religione. La riporto testualmente dal testo di Manacorda di bibliografia [11] e non aggiungo altro:
Il 17 maggio 1878, il Consiglio di Stato, su ricorso di genitori cattolici di Genova, dichiarava che sull'insegnamento della religione non si era abrogata la legge Casati, ma soltanto lo si era reso facoltativo per gli alunni. E i successivi Regolamenti del 16 febbraio 1888 e del 9 ottobre 1895 interpretavano la sentenza nel senso che toccasse ai comuni organizzarlo quando i genitori ne facessero richiesta: una soluzione che non soddisfaceva né i genitori cattolici né i comuni. Cosi l'8 maggio 1903, su ricorso del comune di Milano (si ricordi che la scuola elementare era affidata ai comuni), una nuova sentenza del Consiglio di Stato dichiarava tacitamente abolita con la legge del 1877 l'istruzione religiosa, confermando però l'obbligo imposto ai comuni dal Regolamento del 1895, finché non fosse abolito. Ma quando le Commissioni chiamate a interpretare questa sentenza decisero di abolirlo, il Consiglio di Stato, mutando parere, lo confermò.
In seguito, dopo la legge Orlando del 1904, di riforma della scuola elementare, il nuovo Regolamento del 6 febbraio 1908 prendeva una decisione intermedia, prescrivendo all'art. 3: «I comuni provvederanno all'istruzione religiosa di quegli alunni i cui genitori la richiedano», ma potendo lasciarne la cura ai padri di famiglia, e solo mettendo «a disposizione i locali scolastici». Ma non era finita: il 21 dicembre 1909, la Commissione consultiva ribadiva che l'istruzione religiosa «non entra più nell'ordinamento didattico della scuola elementare» e, intervenendo anche sulle modalità per le richieste dell'insegnamento cattolico, dichiarava «illegale il sistema di distribuire ai padri di famiglia da parte dell'amministrazione comunale moduli per la richiesta dell'istruzione religiosa», perché ciò «tende ad eccitare una risposta da lasciare invece libera e spontanea». Ma si continuò a discuterne anche in Parlamento in occasione del nuovo Regolamento del 1910 del ministro Rava; e finalmente, il 6 aprile 1911, il Supplemento al Bollettino P.I. confermava la decisione del Regolamento del 6 febbraio 1908. In sostanza, l'insegnamento religioso «essendo facoltativo per gli alunni, non può impartirsi nelle ore destinate allo svolgimento degli insegnamenti obbligatori»: il diritto all'insegnamento religioso facoltativo non doveva impedire di «dedicare allo studio delle materie obbligatorie tutte le ore comprese nell'orario normale».
C'era stata dunque, tra molte incertezze, un rimbalzare di decisioni tra gli enti locali, la magistratura e l'amministrazione centrale dello Stato, concluso infine da decisioni rispondenti a una ispirazione laica e liberale che oggi pare del tutto scomparsa.
Nell'insieme, il passaggio dalla legge Casati del 1859 alla legge Ceppino del 1877 con tutti i corollari che abbiamo visto, significò per l'insegnamento cattolico che, se prima occorreva una richiesta per dispensarsene, ora occorreva una richiesta per giovarsene, e lo si consentiva nei locali scolastici ma fuori dall'orario scolastico e a cura degli stessi interessati: un regime che direi di ovvia libertà, che potrebbe valere per qualsiasi altro interesse culturale. Nel 1912 il Morgana, nel suo Dizionario storico di legislazione scolastica, interpretava: «Non entra più nell'organismo didattico della scuola elementare». E il Masi commentava: «Non sarà questo un gran male; sembra invece poco conveniente che lo Stato si mantenga in una condizione di incertezza, che scredita lo stesso insegnamento che si vuoi dare e non dare ad un tempo, e che, ad ogni modo, è impartito malamente». Non aveva torto: ma sentiremo da lui altri commenti meno felici.
Quando nei nostri anni si riaccenderà la disputa sulla collocazione oraria dell'insegnamento cattolico, nessuno mostrerà di ricordare quale peso abbia avuto questa questione un secolo fa, e come le condizioni si siano oggi rovesciate a vantaggio di quell'insegnamento e a svantaggio non solo di chi non lo voglia, ma della stessa vita scolastica. Insomma, abbiamo stoltamente ripetuto, rovesciandole, vicende di un secolo fa, senza nemmeno saperlo.
Non si può davvero dire che la storia sia maestra di vita: almeno quando proprio non la si conosce.
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