A ottanta anni dalla morte di Lenin (1924-2004)

IV parte
 



Per agevolare la lettura, questo articolo di Costanzo Preve su Lenin è stato diviso in otto parti.

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4. La teoria di Lenin del partito politico rivoluzionario

La teoria leniniana del partito politico rivoluzionario è considerata secondo l’opinione comune come il “pezzo” più importante, duraturo e pregiato del contributo di Lenin al marxismo. Non è questa la mia personale opinione. La mia opinione è che il “pezzo” più importante, duraturo e pregiato del contributo di Lenin sia la sua teoria dell’imperialismo, secondo una particolare accezione (il salto dall’eurocentrismo implicito marxiano alla vera mondializzazione) che cercherò di chiarire nel prossimo paragrafo. Ma per ora cerchiamo di ragionare in modo critico e spregiudicato sulla teoria leniniana del partito, la cui prima formulazione è nel Che fare? (1903), ma che poi si presenta in tutte le opere posteriori di Lenin.

In primo luogo, bisogna dire ben chiaro e forte che la teoria leninista del partito è completamente assente in Marx e Engels. Il Manifesto del Partito Comunista di Marx e Engels del 1848 è la dichiarazioni di intenti storica non di uno specifico partito politico (ed infatti Marx e Engels nel biennio 1848-49 si rifiutarono di aderire ai gruppi politici comunisti dell’epoca, ma aderirono invece a forze democratiche non comuniste), ma di una sorta di “partito-tendenza”, la cui natura era quella di coprire un’intera fase storica, e non quella di agire come gruppo organizzato in un panorama politico dato. E’ vero che nel corso delle battaglie politiche della cosiddetta Prima Internazionale (in realtà AIL, associazione internazionale dei lavoratori) Marx e Engels ebbero spesso accenti “partitistici” contro le posizioni anarchiche di Bakunin, ma questo non basta per farli diventare “partitisti” nel senso di Lenin.

E vi è per questo una ragione precisa. Se è vero, infatti, che per Marx il comunismo non è il prodotto politico dell’agire di un partito, ma è il prodotto storico della formazione di un lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale, alleato con le potenze scientifiche evocate dalla produzione industriale moderna e da Marx connotate con la parola inglese general intellect, ne consegue allora che in questo modello dialettico di costituzione di una nuova società non c’è veramente lo spazio teorico per il ruolo decisivo di un partito politico. Certo, Marx e Engels erano favorevoli alla cosiddetta “capacità politica della classe operaia”, in polemica con gli anarchici ed i sindacalisti puri, ma anche questa loro cristallina posizione non ha nulla a che fare con la teoria della decisività di un partito politico.

Risulta chiaro da un’onesta lettura filologica di Marx che per lui la “dittatura del proletariato” era concepita come una dittatura democratica delle maggioranze auto-organizzate in autogoverno politico ed in autogestione economica, e non come la dittatura di un partito inteso come il “rappresentante degli interessi storici” del proletariato. Che poi queste maggioranze auto-organizzate si rivelarono impossibili, impraticabili e del tutto “utopistiche” nella storia reale successiva alla morte di Marx (1883) è vero, ma di per sé questo non cambia di un grammo la posizione di Marx. In una parola, la teoria leniniana del Che Fare? è una revisione di Marx molto più grande di quelle coeve di Bernstein e di Kautsky.

In secondo luogo (e questo secondo punto è immensamente più importante del primo) la teoria leniniana del partito presenta a mio avviso una vera e propria contraddizione strutturale insanabile fra la sua concezione del marxismo come “scienza”, da un lato, e la concezione del “centralismo democratico”, dall’altro. Se il marxismo è concepito come scienza, infatti, non è possibile sostenere contemporaneamente che le decisioni “scientifiche” possano essere prese a maggioranza, in quanto per definizione la “scienza”, se è veramente tale, non procede a colpi di maggioranza e di sottomissioni disciplinate della minoranza. La cosa è intuitiva, ma è di tale importanza da meritare una analisi più dettagliata e approfondita.

Com’è noto, nel Che Fare? Lenin sostiene che la classe operaia, salariata e proletaria di per sé, nelle sue lotte economiche immediate, può soltanto maturare una visione limitata e sindacalistica, mentre per poter impadronirsi teoricamente dell’insieme dei rapporti sociali capitalistici di produzione deve poter giungere alla “scienza marxista”, che solo il partito nella sua collegialità può veramente acquisire. Di tutto questo, si noti bene, in Marx non c’è neppure l’ombra. Nello stesso tempo, a mio avviso, Lenin aveva completamente ragione, perché solo un cieco e/o un illuso può veramente pensare che da uno sciopero economico si possa risalire alla totalità dei rapporti di produzione. Non intendo certamente contestare Lenin su questo punto. I cosiddetti “spontaneisti” possono restare tali solo perché non ragionano e non intendono ragionare e prendere atto dell’evidenza. Da tempo mi sono reso conto che la confusione non è un argomento razionale.

L’insieme dei rapporti sociali di produzione in una formazione economico-sociale è dunque un oggetto scientifico che deve essere analizzato con un metodo scientifico. Trattandosi di una scienza sociale (più esattamente di una ontologia dell’essere sociale), è a mio avviso del tutto erroneo e fuorviante cercare di applicarvi l’oggetto ed il metodo di una scienza naturale. Su questo punto, il mio disaccordo con Lenin è radicale, così come con tutti coloro che ritengono che le scienze naturali e quelle sociali abbiano un oggetto omogeneo ed un metodo simile. Ma in questa sede questo problema, pur così cruciale, è un semplice dettaglio secondario. Eguale o diverso che sia il metodo ed il suo oggetto, in ogni caso la “scienza” non può essere decisa con il metodo delle maggioranze e delle minoranze.

Il principio del “centralismo democratico”, invece, sostiene di fatto proprio questo. Questo principio sostiene che ci si può dividere fra maggioranze e minoranze nel momento preliminare della presa delle decisioni, ma poi, una volte prese le decisioni, la minoranza dissenziente deve impegnarsi a portare avanti la “linea” presa dalla maggioranza.

Tutto questo è compatibile con una bocciofila o con una industria automobilistica, ma non con un’organizzazione che pretende di basarsi sulla “scienza” marxista. Una bocciofila può dividersi se investire in nuovi campi da bocce o in corsi di bocce per adolescenti. Un’industria automobilistica può dividersi sulle scelte di nuovi modelli. In entrambi i casi (ed in migliaia di casi analoghi che il lettore potrà facilmente fare) non si ha a che fare con una pretesa di “scienza”. Ma il partito di Lenin pretende di essere il titolare della “scienza” marxista. Ora, il solo titolare di qualsiasi scienza (naturale, sociale o filosofica che dir si voglia) è il libero convincimento del singolo scienziato. Tutta la teoria della filosofia occidentale, da Socrate in poi, si basa sul principio per cui la “verità”, ammesso che esista, non si decide a maggioranza, ma è oggetto di attività razionale autonoma. Se si fosse dovuto decidere a colpi di maggioranza e minoranza, oggi lo sappiamo bene, Copernico, Galileo e Darwin avrebbero certamente perso.

Questa contraddizione fra preteso carattere scientifico del marxismo, da un lato, e principio del centralismo democratico (in cui le minoranze si sottomettono alle maggioranze anche se non “convinte”) dall’altro, è assolutamente insanabile. O si abbandona la pretesa che il marxismo sia una “scienza”, e allora si possono accettare procedure consensuali di maggioranza e minoranza, oppure si tiene fermo al fatto che è in qualche modo una “scienza”, ed allora non esiste centralismo democratico che tenga. Per questa ragione, la concezione leniniana del partito contiene in sé in potenza il principio della scissione interminabile. Non si tratta di una patologia, ma di una fisiologia inevitabile. Se il marxismo è “scienza”, infatti, ci mancherebbe altro che io mi debba sottomettere ad una casuale maggioranza. Solo la mia coscienza è sovrana indivisibile sulla mia “scienza”. Tutti i fuochi di sbarramento ideologici approntati in un secolo per nascondere questo fatto incontrovertibile, e cioè che la “scienza”, se è scienza, non si sottopone al principio di maggioranza (centralismo democratico), perché se no non è scienza, ma un’altra cosa, rivelano il loro carattere strumentale e miserabile (individualismo piccolo-borghese, anarchismo piccolo-borghese, liberalismo piccolo-borghese, e via farneticando). E’ evidente che qui la “piccola borghesia” diventa una categoria demonologico-inquisitoria per esorcizzare il diritto indiviso del soggetto autonomo moderno ad affrontare la filosofia filosoficamente e la scienza scientificamente.

In terzo luogo, per finire, il partito di Lenin è uno stato in miniatura, una sorta di “socialdemocrazia emergenziale militarizzata”, e più esattamente uno “stato ideologico in potenza”. Non uso queste espressioni per criticarlo o per liquidarlo sommariamente. Al contrario. Uso queste espressioni per segnalare come già Marx, in polemica con Lassalle, aveva escluso che lo stato, sia pure riformato o “operaio”, potesse essere lo strumento politico per il superamento del capitalismo. Lo stato, infatti, incorpora nella sua struttura differenziali di sapere e di potere che non possono essere neutralizzati “ideologicamente”. Su questo punto è permesso, naturalmente, criticare Marx per “utopismo”, riaffermare la validità dello stato democratizzato e soprattutto considerare insostenibile la teoria dell’estinzione dello stato. Chi scrive, tra l’altro, pensa proprio questo. Ma allora bisogna avere il coraggio di essere apertamente “revisionisti”, perché Karl Marx, il fondatore della ditta, non  pensava questo, ma pensava il contrario.

Concludiamo sul punto del partito. Accusare Lenin non ha senso, perché egli non ha fatto altro che prendere atto radicalmente di un dato già allora visibile (ed oggi incontrovertibile), cioè l’assoluta incapacità della classe operaia, salariata e proletaria, presa nella sua immediatezza sociologica, di operare “spontaneamente” un superamento del capitalismo. Ci voleva comunque un rimedio, e Lenin propose un nuovo tipo di partito rivoluzionario “integrale”, una sorta di ordine religioso anti-capitalistico. Non ha funzionato. Mai fidarsi di preti e sacerdoti. Tradiranno il messia prima che il gallo abbia cantato tre volte. Non c’è bisogno per questo di rivolgersi a Roberto Michels o a Leone Trotzky. Ma di fronte alla miseria intellettuale dei cosiddetti “spontaneisti” (ultima versione, la più grottesca di tutte, il lottacontinuismo italiano degli anni 1969-1976), Lenin fa la figura di un gigante.



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