Il presente di Costanzo Preve

I parte
 



Pubblichiamo qui la critica di Giuseppe Bailone al modo generale con cui Costanzo Preve mette in relazione filosofia e politica. Al di là della specifica disputa, pensiamo che possa offrire alcuni spunti interessanti e (come dice la vecchia frase) "stimolare un dibattito".

Il testo è stato diviso in tre parti:

  • La critica di Giuseppe Bailone

  • La replica di Costanzo Preve

  • La replica di Giuseppe Bailone

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    Critica di Giuseppe Bailone a Costanzo Preve

    "Il mondo attuale non sembra un mondo alla rovescia, ma lo è veramente".

    E' questa "la principale tesi "metafisica" di questo saggio", dice la quarta di copertina di Filosofia del presente, edizioni Settimo Sigillo 2004.

    Il significato più generico di metafisica è quello di un sapere, stabile e sicuro, raggiunto con superamento delle apparenze che presentano la realtà in modo incerto e instabile. La realtà avrebbe cioè due livelli, uno apparente, superficiale, che si offre ai sensi, l'altro profondo e vero, che si raggiunge con l'intelletto. Il primo, con il suo apparire ai sensi, invita la ragione ad andare oltre, più a fondo, fino a trovare la realtà stabile e sicura, che spiega il suo apparire.

    La tesi di Preve è, però, costituita di due proposizioni, una negativa e l'altra affermativa, tenute insieme dalla congiunzione avversativa "ma".

    L'apparenza non invita ad andare più a fondo, all'incontro con la realtà. E' l'apparire che copre, maschera, occulta la vera realtà. L'andare oltre e più a fondo è promosso dall'iniziativa del soggetto conoscente, che non si lascia avvolgere dall'apparenza, ma la penetra e la rompe, toglie la maschera e scopre la vera realtà.

    Preve non si lascia ingannare dall'apparenza. L'aggredisce con il sospetto.

    IL SOSPETTO

    E' il sospetto il motore conoscitivo di Preve, non il fascino dell'apparire che invita all'approfondimento.

    Ogni pagina del saggio è segnata da questa cultura del sospetto.

    Nel "teatro filosofico" i filosofi che si presentano vengono da Preve smascherati.

    Di Locke, "anziché ricordare in modo scolastico le caratteristiche del suo modello contrattualista", Preve trova "più interessante "decifrare" il suo tessuto concettuale"(pag.12). Di Hume, cerca "di "decifrare" i tre elementi fondamentali". "Sia per Locke sia per Hume il contenuto sociale è "nascosto" all'interno dell'apparente "neutralità" delle categorie filosofiche più astratte, nella più sconfortante inconsapevolezza dei manuali tradizionali di storia della filosofia"(pag.13). Anche Karl Marx, maestro di sospetto e autore fondamentale per Preve, viene investito dal sospetto: "In estrema e provocatoria sintesi, quello di Marx è un idealismo che finge di essere materialismo, al di là della (scarsa) autoconsapevolezza che lo stesso Marx poteva avere del suo stesso metodo (ma Freud ci ha messo in guardia sulla scarsa trasparenza che ha il soggetto sulla propria coscienza)"(pag. 14).

    In questo passo il sospetto assume tratti paradossali: che Preve investa con sospetto il suo maestro di sospetto, mi sembra normale, ma, che il sospetto arrivi a mettere in discussione la consapevolezza di Marx sul proprio metodo, mi sembra troppo. Un chirurgo può benissimo non essere consapevole di eventuali pulsioni aggressive, rimosse, sublimate nella sua vocazione professionale, ed essere un ottimo chirurgo. Ma, se ha scarsa consapevolezza "del suo stesso metodo", va radiato dalla corporazione professionale. Se lo scienziato sociale e filosofo Marx ha scarsa consapevolezza del suo metodo, è un cattivo scienziato e un cattivo filosofo.

    Se il sospetto è la prima regola del metodo di ricerca, si ha il rovesciamento del cartesianesimo e la distruzione di ogni possibilità di rigore scientifico e di ricerca. Il dubbio può animare una ricerca che superi il dubbio, con successo più o meno sicuro, ma se il dubbio si fa sospetto, cioè certezza che una forza occulta faccia apparire per vero ciò che è falso, la strada della ricerca è interrotta da un baratro sull'abisso e sull'assurdo. Cartesio ha visto quel baratro, quando ha fatto l'ipotesi del genio maligno, e se n'è allontanato precipitosamente, arrivando all'estremo opposto: la certezza che Dio non fa scherzi ed è garante delle verità matematiche.

    C'è un rapporto di opposizione dialettica tra evidenza cartesiana e sospetto. Il sospetto non è parente del dubbio. E' una certezza. E' la certezza che mina tutte le certezze, ma che non viene mai messa in dubbio.

    In Marx questa certezza è la lotta di classe. In Preve la certezza marxiana si è molto indebolita: l'incapacità strutturale della classe operaia di fare la rivoluzione e di rovesciare il nemico, che fa apparire vero ciò ch'è falso, universale ciò ch'è particolare, porta alla disperazione insostenibile o al cambio di certezza fondante il sospetto. Preve cambia certezza, per fondare su nuova base il sospetto, senza chiudersi spiragli di speranza e, soprattutto, per garantirsi la convinzione di essere al sicuro nella verità, propria, che smaschera il falso degli altri, di tutti gli altri, compreso il suo maestro Marx. Ma è con Marx che trova la nuova certezza.

    "Con il Settecento e l'avvento della produzione generalizzata di valori di scambio, si crea uno spazio simbolico per un unico substrato materiale omogeneo in cui le merci possano scorrere senza più ostacoli. Nasce allora un unico "soggetto" (hypokeimenon) unificato, che si manifesta con le parole di Marx come "materialità universale" (allgemeine Materiatur). Esso media tutte le attività sociali, tutte le relazioni, eccetera, e nello stesso tempo le mistifica come attività materiali"(pag.55).

    E' la tesi della realtà sociale e storica articolata in struttura e sovrastruttura. La struttura qui la si chiama substrato e la sovrastruttura diventa la scena del teatro delle marionette, "il teatro filosofico della costituzione categoriale della modernità"(pag.12).

    E' la certezza indiscussa di questo substrato e della sua funzione mistificante che muove la ricerca del "senso profondo di categorie apparentemente del tutto astratte come sostanza, causalità, identità dell'io, materia, storia, lavoro"(pag.43).

    "La critica di Locke alla categoria di sostanza è una proiezione metaforica di un fatto storico e sociale, e cioè la coeva "desostanzializzazione" della società protocapitalistica, che i nuovi rapporti mercantili di produzione stavano trasformando in una rete relazionale non più bisognosa di "fondamento"(pag.49).

    "Le storie della filosofia sono in proposito reticenti e fuorvianti, perché prendono sul serio (sic!) la lettura dello stesso Locke"(pag.49).

    "La stessa polemica lockiana contro le cosiddette "idee innate" di Descartes .....deve essere a mio avviso interpretata come l'anticipazione di una concezione.... per cui il soggetto non "preesiste" ai rapporti sociali capitalistici, ma ne è interamente permeato dal gioco esterno degli stimoli della domanda e dell'offerta" (pag. 49). "David Hume fu il Giovanni Battista del vero capitalismo utilitaristico autofondato". Colpì infatti la categoria di causalità, provvedendo alla "fondazione filosofica migliore dei rapporti di produzione capitalistici", e i manuali "inconsapevolmente esilaranti" non sospettano neppure "il nocciolo politico ed economico del problema, e si dilungano sul fatto, interessante ma anche irrilevante, che l'abitudine a vedere le palle da biliardo che si colpiscono l'una con l'altra non significa che la ragione di questo fenomeno sia un'essenza metafisica"(pag.52).

    INTERESSANTE MA IRRILEVANTE

    C'è in questa congiunzione, con l'avversativo "ma", il senso dell'atteggiamento di Preve nei confronti della filosofia: i filosofi dicono cose interessanti ma irrilevanti. Sono al servizio di forze profonde e, quasi sempre, non lo sanno. I manuali di filosofia si lasciano affascinare dall'interesse delle cose che essi dicono e non sospettano le cose che essi servono e coprono. Sono esilaranti, reticenti e fuorvianti.

    Ma Preve non cede al canto delle sirene filosofiche. Capisce subito dove porta il discorso dei filosofi e non perde tempo a starli a sentire fino alla fine della storia.

    Significativo è, a questo proposito, il discorso sui centauri di Hobbes. Preve segnala, lodevolmente, la presenza nello zoo politico di Hobbes del centauro, che Hobbes mette bene in vista ma su cui i suoi lettori non fermano, di solito, lo sguardo. Ma la pressione ideologica porta Preve a cogliere del centauro solo un aspetto, quello che ne fa un elemento di lotta ideologica e politica di Hobbes, perdendone il significato filosofico.

    Apprezza le scorie ideologiche e vede nel centauro il "fanatismo biblico arbitrario"(pag.47). Trascura la sostanza filosofica e non vede nel centauro il coraggio, condannato da Hobbes, di togliere al potere il controllo della giustizia, per affidarlo all'intelletto.

    Per Preve tutta la filosofia della modernità si riduce, una volta messe da parte le cose interessanti ma irrilevanti, alla dissoluzione critica dei concetti di Sostanza e di Causa e alla costruzione dei concetti di Materia, Storia e Lavoro, "invenzioni" settecentesche, "prodotto astrattizzato di un gigantesco processo sociale sottostante, la produzione generalizzata di merci e di valori di scambio del nascente capitalismo"(pag.54). Marx diceva che tutta la filosofia, tranne la sua, è ideologia. Preve non condivide le parole di Marx, afferma di credere nell'autonomia della filosofia, vede il limite di Marx nell'abbandono del terreno filosofico, ma, accostandosi alla filosofia, la riduce a ideologia. Le sue interpretazioni filosofiche, avvelenate dal sospetto, sono, non di rado, originali, ma selezionano nella produzione filosofica le scorie ideologiche e le valorizzano per il loro riferimento ai "giganteschi" processi sociali e storici di fondo, perdendo di vista la sostanza durevole, che rende classico un pensiero.

    Gli inevitabili segni del tempo, invece di essere trascurati, perché filosoficamente irrilevanti, diventano, per il loro interesse ideologico, la sostanza.

    Perché Preve non prova a fermarsi alle cose interessanti filosoficamente, ma irrilevanti ideologicamente?

    Perché non prova, quando apre una pagina di filosofia, a mettere tra parentesi i giganteschi processi sociali e storici di fondo, sottostanti? Perché non prova, almeno in via di ipotesi, ad occuparsi della filosofia indipendentemente dagli usi ideologici fatti o possibili? Perché non prova a pensare i concetti filosofici come se fossero caduti dal cielo, nella loro pura oggettività, come se fossero stati costruiti per non servire a nulla, gratuitamente, come i prodotti artistici, per solo interesse alla loro costruzione? Perché non gioca con la filosofia come se essa non servisse proprio a nulla se non al gioco stesso? Perché non lascia libertà alla filosofia, ma la tiene sempre a servizio?

    L'UTILITARISMO

    Sul teatro filosofico della modernità è andato in scena lo scontro tra tre modelli di pensiero, il tradizionalista, il contrattualista e l'utilitarista. Ha vinto quello che in un inciso, a pagina 52, Preve dice "odioso".

    Ha vinto perché "è l'unico che può garantire il primato della nuova economia politica inglese come rappresentazione integrale sia della legittimazione che della riproduzione sociale"(pag.12). Se ho capito il pensiero di Preve, la vittoria dell'utilitarismo è ideologica, non filosofica. La filosofia è responsabile delle battaglie ideologiche che si combattono alle sue spalle? L'uso ideologico di una filosofia altera la sua natura filosofica. Dal punto di vista filosofico, solo filosofico, che cos'ha di odioso l'utilitarismo? Come giudica Preve la consistenza filosofica dell'utilitarismo? Sul teatro filosofico della modernità comparirebbero tre concetti, Materia, Storia e Lavoro, nuovi, d'invenzione settecentesca. E' sicuro, Preve che la novità investa proprio il carattere filosofico dei concetti e non sia più semplicemente una nuova sovrapposizione ideologica?

    L'INTUIZIONE OLISTICA ESPRESSIVA

    Il 26 gennaio 2005, in un seminario sul suo Marx inattuale, al CESEDI di Torino, Preve ha parlato del suo anticapitalismo giovanile. L'ha definito "un'intuizione olistica espressiva" e ha detto che esso ha preceduto il suo incontro intellettuale con Marx e il marxismo. Preve avrebbe abbracciato il marxismo per aver trovato in esso la legittimazione culturale del suo anticapitalismo: non si sarebbe orientato in senso anticapitalistico per gli studi marxisti, ma sarebbe diventato marxista per il suo anticapitalismo.

    Preve ha aggiunto che queste "intuizioni olistiche espressive" giovanili non sono oggetto di discussione e di convincimento, ma vengono messe in discussione solo in quelle profonde vicende spirituali che sono le conversioni.

    La scelta fondamentale della sua esistenza, Preve l'avrebbe fatta prima dell'incontro con la filosofia ed avrebbe orientato tutta la sua esistenza e caratterizzato il suo rapporto con la filosofia. Se Preve conosce bene se stesso ed ha ricostruito bene la sua formazione giovanile, il suo rapporto con la filosofia è di tipo scolastico medievale e non greco classico. I suoi modelli vanno da Agostino ad Occam, inizio e fine dell'impostazione scolastica della filosofia al servizio della fede. Sono i filosofi al guinzaglio, abili polemisti, pronti a discutere di tutto ma non di ciò che è fondamentale, già ipotecato dalla fede.

    La caduta del comunismo novecentesco ha dissolto la chiesa a cui Preve è stato profondamente legato, con spirito molto più ereticale che ortodosso, ma la fede è rimasta nel profondo della sua anima. Da un po' di anni, Preve ha riscoperto la Grecia, che tanta parte ha avuto nella sua formazione infantile e giovanile. Quando parla di Atene, Preve sembra presentarla come una scelta di campo. Spesso la contrappone a Gerusalemme. Vive, forse, in forme nuove, la fede di tutta la sua esistenza, inaugurata dall'intuizione olistica espressiva giovanile?

    Ma, il marxismo, che è nato e vissuto come filosofia scolastica, come ideologia, si prestava molto bene alla funzione per la quale Preve l'aveva scelto. Ben diversamente stanno le cose con filosofia greca, che egli presenta in modo unitario. In essa ci sono anche tracce di impostazione scolastica, ma nel suo simbolo, Socrate, di scolastico non c'è assolutamente nulla. Come si fa a tenere al guinzaglio dell'anticapitalismo il pensiero greco? Come si può mettere in mezzo, per la discussione dialogica, il logos, senza liberarlo dalla catena della giovanile intuizione olistica espressiva?

    IL TEMPO E LA FILOSOFIA

    "La filosofia è proprio tempo appreso con il pensiero". Questa tesi hegeliana, uno dei diversi modi in cui la filosofia ha impostato il suo rapporto con il tempo, è il punto di partenza dichiarato del discorso di Preve sul presente.

    Dietro e a fondamento della tesi hegeliana c'è una metafisica imperniata sull'unità di finito e infinito, di umano e divino, temporale ed eterno, che produce una concezione della storia unitaria, unilineare, progressiva, ottimistica. Hegel traduce in termini filosofici e immanentistici la teologia della storia di origine agostiniana. Dio non interviene soltanto come provvidenza nella storia, ma è il vero e unico soggetto della storia. Dio si realizza nella storia. La storia è storia divina.

    Non mi pare che Preve condivida questi presupposti. Non credo che consideri il tempo come realizzazione e manifestazione di Dio. Infatti, appena precisa il senso che intende dare alla tesi hegeliana, propone una metafisica della storia ben diversa da quella hegeliana.

    "L'intero mio lavoro è logicamente costruito su questo delicato equilibrio fra l'elemento eterno e l'elemento storico della filosofia, all'interno di una concezione sostanzialmente veritativa dell'attività filosofica. La verità ha infatti sempre un padre e una madre, l'eterno e la temporalità"(pag.9). Ma, mentre in Hegel l'eterno si vede chiaramente ed è Dio, l'infinito, in Preve non si vede mai. Tutti gli elementi che Preve introduce in questo saggio per costruire la sua filosofia della storia, all'interno della quale produrre la sua filosofia del presente, sono fatti e forze storiche, più o meno importanti, più o meno durevoli, ma storici. Dov'è l'eterno?

    GENESI E VALIDITA'

    Preve fa suo "l'approccio filosofico tedesco, che distingue la genesi (Genesis) dalla validità (Geltung), ed evita così il relativismo nichilistico, che inchioda ogni espressione culturale alla sua sola genesi storica"(pag.10). Benissimo! Ma, mentre il discorso sulla genesi è sempre ricco di elementi, com'è giusto che sia, la sentenza di validità viene sempre pronunciata senza motivazioni, che non siano la ripresa di elementi genetici. Atene è un modello a validità universale, Gerusalemme no. In base a che cosa?

    Ci si aspetterebbe, a questo punto, la comparsa dell'eternità, o di qualche principio non storico, non temporale, in base al quale si possa dire che la particolarità storica di Atene esce dai propri limiti temporali e si propone a tutti i tempi come modello. Ma Preve propone "due elementi, una concezione dinamica della natura ed una concezione aporetica della storia"(pag.11), due contenuti concettuali, non solo geneticamente legati al tempo, ma chiusi nei limiti per la loro determinazione di contenuto. Se non si esce dai limiti, non si va verso l'universale. Infatti, Preve motiva il suo giudizio di validità, scendendo dall'universalità alla relatività storica: "Entrambe sono migliori delle concezioni di natura e di storia che hanno prevalso nella modernità, e questo può essere pacatamente dimostrato"(pag.11).

    La dimostrazione poi non viene, ma non è questo il punto. E' scomparsa l'universalità dietro l'annuncio di una dimostrazione pacata ma mancata e che, comunque, non avrebbe dimostrato la validità universale, ma solo la superiorità sui moderni concetti di natura e storia.

    Per uscire dalla particolarità storica verso l'eterno universale, si fa un annuncio, e lo si sostiene con un confronto tra modelli storicamente determinati. E' il tentativo di afferrare l'eternità saltando nel tempo, non oltre il tempo, di uscire dalla caverna platonica girandoci dentro, magari con spettacolari acrobazie. Un modello particolare, per migliore che sia di un altro modello particolare, resta particolare. Il suo essere migliore non lo rende universale.

    Come per l'eternità, o si resta con Hegel e si parla di universale concreto, per cui in ogni genesi particolare c'è il farsi particolare dell'universale, così come il tempo è il farsi tempo dell'eternità, oppure si apre la domanda, come per l'eternità: dov'è l'universalità?

    Se si resta con Hegel, non si può dire che Atene è universale e Gerusalemme no. Si può dire che sono due diverse universalità concrete. Non si può neanche dire che una sia migliore dell'altra: come può una incarnazione storica di Dio essere migliore o peggiore di un'altra?

    Se si vuole mantenere l'alternativa tra la particolarità di Gerusalemme e l'universalità di Atene, bisogna trovarne un fondamento non storico.

    Preve lo cerca nella natura umana, ancora sulle tracce di Marx, della sua teoria filosofica dell'uomo come ente naturale generico. In Marx, questa teoria, giovanile e presto abbandonata, ma metabolizzata nella sua nuova scienza della totalità sociale, è rimasta implicita, "perché il nostro barbuto tedesco non l'ha mai esplicitata"(pag.74). "Karl Marx lasciò aperta la sua riflessione aporetica ed ambivalente come un cantiere in costruzione"(pag.80). E' la preziosa eredità che Preve chiama idealismo naturalistico e che ha "come sfondo metafisico costitutivo anche la dialettica idealistica dei greci"(pag.80).

    Se ricongiungiamo questo idealismo naturalistico, eredità marxiana, all'eredità greca, cioè la concezione dinamica della natura e la concezione aporetica della storia, abbiamo effettivamente una posizione non storica da cui guardare la storia e valutarla. L'uomo ha una storia, anzi tante storie (Preve è per una concezione multilineare della storia), ma non è storia, non è solo storia. Ed è l'elemento non storico che consente una valutazione della storia e ne dà un senso.

    Ma, se è così, perché contrapporre Atene a Gerusalemme?

    In Gerusalemme l'uomo naturale si è forse risolto interamente nella sua storia, rendendo la sua particolarità storica pura particolarità e non determinazione storica particolare dell'universale natura umana? Facendo la sua storia, il popolo ebraico, ha forse perso la sua natura umana? C'è un'alienazione ebraica? Sarebbe il rovesciamento dell'idea ebraica del popolo eletto.

    Preve intende raccogliere l'eredita greca e non quella ebraica. Preve è libero di arricchirsi delle eredità che apprezza e di impoverirsi privandosi delle eredità che non apprezza. Ma questa libera scelta non rende universale quel che raccoglie e non abbandona alla particolarità storica quel che non raccoglie.

    LA NATURA UMANA

    La natura umana universale si è presentata nella storia come idea religiosa, mitica, scientifica e filosofica. Molte religioni propongono l'unità e l'universalità umana con l'idea di un solo Dio. Una di questa si dice universale, per definizione, cattolica, ma deve riconoscere la sua particolarità, se vuole dialogare con le altre e riconoscere ad esse la capacità di contribuire ad un'autentica universalità religiosa.

    Le religioni monoteiste, se propongono unilateralmente il proprio Dio, rischiano la guerra, se vogliono la pace e il dialogo, devono mettere il loro Dio insieme agli altri per trarne uno veramente uno e veramente universale. L'imposizione della propria universalità religiosa (propria universalità religiosa è quasi un ossimoro) genera guerra. La pace e il dialogo esigono la messa in discussione della propria universalità e la ricerca di una nuova universalità.

    L'universalità mitica è parente dell'universalità religiosa, ma non ne ha il carattere dogmatico. Si presta, per sua natura, alla discussione dialogica e alla libera interpretazione. In questo, si avvicina alla filosofia.

    L'universalità scientifica, se è rigorosamente scientifica, è esposta costantemente alla possibilità di revisione e di falsificazione. La sola certezza scientifica è che le scienze sperimentali, non ipotetiche come la matematica, ogni tanto vengono travolte da rivoluzioni. Anche l'antropologia scientifica ha avuto le sue rivoluzioni. Sono ancora vivi quelli che hanno visto l'autorità scientifica italiana proclamare solennemente l'esistenza della diversità razziale umana. Adesso assistono a proclamazioni altrettanto solenni, ma opposte. Nella loro testa sono arrivati due dogmi scientifici opposti. La scienza non ha dogmi. Quelle proclamazioni dogmatiche erano pseudoscienza. E' vero. Ma le certezze scientifiche, per provvisorie che siano, sono quelle a cui la nostra cultura si affida di più, e il rischio di viverle religiosamente c'è sempre.

    La natura umana è, infine, un'idea filosofica, anche metafisica.

    Se la scienza è esposta al rischio di rivoluzioni, la filosofia fa della propria messa in discussione la propria divisa. Socrate è la figura simbolica della filosofia e maestro del dubbio. Non del dubbio metodico, ipotetico e matematico di Cartesio, proposto per essere superato. Non il dubbio preliminare alla ricerca delle certezze. Ma il dubbio che investe le certezze.

    Chiamare la filosofia a parlare di natura umana, di uomo, significa mettere un punto interrogativo sulle nozioni di uomo, rimettere in discussione il sapere antropologico. E' vero che anche la filosofia può irrigidirsi in dogmi, ma perde se stessa. Diventa scolastica, apologetica, ideologica.

    Non resta che il relativismo, dicono, oggi, in molti. Dobbiamo accontentarcene e farne la base di una coesistenza pacifica.

    Non c'è un solo Dio, ci sono tanti dei. Se li riconosciamo, ci liberiamo dal fanatismo e diventiamo tolleranti. Ognuno accetti i propri limiti, i propri confini, si tenga i suoi culti e rispetti quelli degli altri. Gli dei sono tanti, nessuno è più vero o più falso di un altro. Sono tutti veri e falsi insieme. O dogmatismo, esposto al rischio del fanatismo, o tolleranza scettica.

    Ma la filosofia non ha verità dogmatiche e il suo dubbio non è disincanto scettico. Dogmatismo e scetticismo hanno dinamiche emotive, hanno a che fare con le illusioni e le disillusioni. Socrate provoca con l'ironia crisi esistenziali e assiste con la maieutica alla ricerca come al parto dell'anima. La ragione filosofica, dialogica, che travolge le certezze abituali e crea crisi esistenziali, è anche la via d'uscita verso la verità.

    Il dogmatico è sicuro di avere la verità in tasca. Lo scettico ha messo le mani in tasca e non ha trovato niente. Entrambi hanno un rapporto proprietario con la verità, vogliono mettere le mani sulla verità.

    La filosofia sa che la verità non è una cosa e non può essere afferrata, agguantata, catturata. La strada verso la verità è la libertà, non la disciplina della conquista. L'ironia socratica demolisce le strategie di conquista e di possesso della verità, libera l'anima dalla tensione militante e dalle rigidità delle abitudini, la espone al vuoto della libertà, la libera verso la verità.

    La verità non si può agguantare ma è ciò verso cui vale la pena di orientare l'esistenza. Entra, qui, in scena il genio filosofico del Seicento, il secolo geometrico e fanatico, il secolo della ragione senza fede e della fede senza ragione, Pascal. Egli ha indicato la via d'uscita filosofica, con la scommessa esistenziale. Oggi, possiamo riformulare la scommessa pascaliana e affrontare, con quello spirito, la questione cruciale della natura umana. Possiamo scommettere sulla possibilità che le molte storie degli uomini si incontrino e si capiscano reciprocamente, fino ad arrivare ad una concezione dell'uomo unitaria. Fare come se la natura umana esistesse, vivere come se ci fosse, cercarla come se ci fosse, dialogare per trovarla. Il costo è nulla. Il guadagno è il nostro destino. Se non ci fosse, la sua ricerca sarebbe, comunque, altamente remunerativa. Se la trovassimo, scopriremmo, credo, ch'essa è la capacità stessa di fare questa scommessa. La storia è una fessura nel mondo naturale. Tante storie, tante fessure. Hanno in comune l'essere delle fessure, possono incontrarsi e intendersi.

    SENSO E FINE DELLA STORIA

    La scommessa fonda una nuova teleologia della storia. Dà un senso e un fine alla storia, senza forzature coercitive. Si possono interrogare i fatti e vedere in essi un senso, il loro rapporto con il fine della storia, con la posta della scommessa umana. La storia torna ad avere un inizio, l'aprirsi della fessura umana nel mondo naturale, e un fine, la scoperta della comune umanità e l'intesa dialogica sulla propria natura.

    Si può tornare a vedere la storia come un viaggio, un'avventura, con stazione di partenza, ormai avvolta nelle nebbie del passato, e stazione d'arrivo, al di là dell'orizzonte, ma sulla cui esistenza abbiamo scommesso.

    Una nuova grande narrazione. Un nuovo mito, da elaborare insieme, nella libertà di ricerca, nella solidarietà dialogica e del gioco esistenziale. Possiamo tornare a raccontarci storie, le nostre diverse storie, e tentare di consolidarne una collettiva, fare un mito.

    Senza dogmi e senza cinico disincanto.

    Se anche gli sviluppi delle scienze antropologiche producessero la certezza che gli uomini non hanno una origine comune, ma sono il risultato di diversi percorsi evolutivi del regno animale, la nuova grande narrazione resterebbe possibile. La stazione unitaria di partenza non è l'avere lo stesso albero genealogico, ma il comune salto nella storia, l'aprirsi della fessura storica nel mondo naturale. E questa, fra soggetti storici, non può essere messa in discussione, per conflittuale che siano i loro rapporti. Storia e fessura nel mondo naturale sono sinonimi.

    Se nessuna scoperta scientifica può toglierci l'unità di partenza, avvenuta magari in tempi diversi oltre che in luoghi diversi, niente può impedirci di scommettere sull'unità di arrivo. La storia può tornare ad essere pensata come unitaria, come avventura alla ricerca dell'unità profonda degli uomini. Non solo i rapporti dialogici e pacifici sono felici conferme della profonda unità della storia. Anche i conflitti più violenti la confermano: vertono tutti, infatti, sulla idea di umanità. La lotta è per la sua determinazione. Anche l'incipiente scontro di civiltà ne è una tragica conferma. Non può non esistere la natura umana, se gli uomini si scannano e rischiano di mettere fine alla storia per imporne la propria determinazione e il proprio controllo.

    Si può ripensare tutto il patrimonio culturale dell'umanità. Si può ricominciare. Costruire miti, racconti collettivi, recuperando quelli passati, senza buttare via tutto, senza conservare tutto.

    Torino 29 gennaio 05

    Alla replica di Costanzo Preve




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