Per agevolare la lettura, questa storia della scuola italiana è stato diviso in venticinque parti.
All'introduzione
Alla parte successiva

SCUOLA SECONDARIA CLASSICA E TECNICA

 

Data la grande rilevanza del problema dell'alfabetizzazione, dell'istruzione di base, della scuola popolare obbligatoria e gratuita, della preparazione degli insegnanti, eccetera, fino ad ora mi sono prevalentemente occupato di scuola elementare.

E' ora d'interesse fare un qualche passo indietro per vedere cosa accade nella pratica e nella legislazione della scuola secondaria, con riferimento alle scuole tecniche che erano da più parti auspicate per sostenere la crescita industriale del nostro Paese. Dice Lacaita [7]:

Se il problema della scuola elementare fu il più grosso, quello della scuola secondaria fu il più complesso e aggrovigliato per la molteplicità delle questioni che vi erano implicate: questioni di natura culturale e insieme sociale, economica e politica, perché era chiamato in causa accanto al concetto stesso di cultura, quello della sua funzione nella società e del suo ruolo nello sviluppo economico del paese. (...)

La prima questione riguardava il rapporto fra l'istruzione classica (conducente alle scuole superiori scientifiche e letterarie, destinate a « educar l'intelletto alla manifestazione del bello, od alla investigazione del vero ») e l'istruzione tecnica ( conducente alle « industrie » e intesa a fornire la cultura più adatta a quanti volessero appunto dedicarsi alle arti della produzione materiale). Gli interrogativi che ricorsero costantemente su questo problema furono i seguenti: a) la distinzione fra i due tipi di studi deve essere realizzata subito dopo la scuola elementare? b) deve essere completa, totale, per cui insegnamenti, metodi, mezzi, norme scolastiche, strutture amministrative devono essere nettamente diversi e separati?
La seconda questione verteva sullo scopo e lo sbocco dell'istruzione tecnica: questa — si diceva — deve insegnare solo e immediatamente « l'arte »? Il suo insegnamento, cioè, deve dividersi subito in tanti rami speciali, corrispondenti alle diverse forme del lavoro manuale, o deve essere per un certo periodo « generico », sebbene appropriato per l'indole e per il metodo degli studi a chi deve dedicarsi alle attività pratiche e industriali?
La terza, infine, strettamente dipendente dalle precedenti, riguardava i rapporti (e quindi le possibilità di passaggio) fra i vari gradi e ordini di scuole secondarie e fra il livello elementare, quello medio e quello superiore dell'istruzione.
Le risposte date a questi problemi furono diverse sia in sede di dibattito culturale e politico, sia in sede governativa e amministrativa; il che in primo luogo è da attribuire alla composizione della classe dirigente italiana post-unitaria.

La questione aveva anche una portata molto più vasta e riguardava, almeno nei primi anni postunitari, la laicizzazione dell'insegnamento. La cosa è ben descritta da Gabelli in un suo articolo su Nuova Antologia del 1 ottobre 1888 in cui si occupava di insegnamento classico [7]:

Nel 1866 c'erano in Italia fra pubblici e privati, 727 ginnasi e 326 licei, cioè insieme 1.053 istituti di istruzione secondaria classica. Questa eccessiva abbondanza, che il pedagogista veneto riconosceva come un aspetto patologico della scuola italiana, era in grandissima parte eredità del passato.
In Italia — proseguiva infatti il Gabelli — fino a trenta anni fa l'istruzione classica era, si può dire, la sola che esistesse. Avevano scuole tecniche i paesi soggetti all'Austria e il Piemonte, ma nelle altre parti il latino e la filosofia costituivano gli studi obbligatori per tutti. D'altro lato la Chiesa, sempre intenta a impadronirsi dell'educazione, aveva disteso sopra l'Italia una rete di ben 400 seminarii ai quali conviene aggiungere poco meno di 200 altre istituzioni venute su a loro somiglianza per opera di benefattori privati, che avevano voluto raccomandare ai posteri il loro nome, dotando di un ginnasio il loro paese. Dal canto loro poi alcuni dei Governi cessati avevano cercato di emanciparsi dalla Chiesa e dai privati aprendo istituti propri. Così lo Stato italiano si trovò sulle braccia nel venire al mondo tanta copia di istituti classici da superare di tre e quattro volte le nazioni meglio fornite ed a competere con quella degli Stati di mezza Europa riuniti insieme. E tuttavia fu costretto a farne degli altri, perché nei paesi dove mancavano gli istituti governativi, sarebbe stato impossibile abbandonare tutta l'istruzione ai seminari o ai privati; e quelli che fece non bastano ancora.

Questa urgenza di neutralizzare l'influenza del clero sull'educazione e di contrastare le tendenze antiunitarie delle scuole private clericali, fu una delle principali preoccupazioni dei primi legislatori della scuola, anche se la laicizzazione della cultura poteva essere anche e più efficacemente realizzata, come in effetti avveniva altrove, attraverso il potenziamento dell'istruzione scientifico-tecnica, nell'ipotesi che si avesse chiaro di cosa si trattasse (vedi paragrafo seguente). Ma questa strada, per un cronico e storico arretramento culturale del nostro Paese, soprattutto nel campo delle scienze e della loro comprensione in termini culturali complessivi, anche degli illuminati, non fu seguita. Solo alcuni, tra gli intellettuali meno provinciali e più avanzati, erano convinti che, come avvenuto nei Paesi del Nord Europa, l'istruzione ci avrebbe permesso di superare quella che ineluttabilmente era data come nostra vocazione, la agricola. Su Il Politecnico (1860), ad esempio, G. Rosa si lamentava dei figli degli industriali nostri che la nostra scuola manda alla tortura del latino e del greco, in luogo di munirli di chimica industriale. E la cosa ebbe un seguito negli anni successivi, dopo che Alessandro Rossi e Giuseppe Colombo, di ritorno dall'Esposizione Universale di Parigi del 1867 iniziarono a sostenere con forza l'industrializzazione del Paese cercandone i motivi di fondo ed i punti di forza. A Parigi emergeva con chiarezza che le industrie continentali stavano recuperando rapidamente terreno con la Gran Bretagna. Colombo, dopo un esame della situazione delle realtà dei vari Paesi europei espositori, deduceva che una spiegazione di questa rapida crescita che aveva portato a tali successi risiedeva nel sistema di educazione tecnica di cui i Paesi emergenti si erano dotati che risultava di gran lunga superiore a quello esistente in Inghilterra che, tra l'altro, non si era preoccupata di organizzare tale istruzione in modo strutturale ed aveva imboccato una via liberista (l'azione del governo deve farsi piccola, eclissarsi più che è possibile davanti all'iniziativa privata) che stava rapidamente entrando in crisi. Esemplificazione opposta all'Inghilterra, era rappresentata in modo particolare dall'impetuoso emergere della Prussia a lato della Germania che si erano date un sistema di educazione obbligatorio, selettivo sulle capacità e fortemente fondato sul sostegno dello Stato ai meno abbienti mediante un efficientissimo sistema di borse di studio.

In Italia eravamo ancora ai dibattiti. Vi era un apprendistato selvaggio che era soprattutto in mano ad opere pie, ad orfanatrofi, a iniziative caritatevoli. Si imparava il mestiere imitando chi esercitava la professione, con sistemi che andavano bene per l'artigianato e non certo per l'industria. Occorreva pensare delle scuole che andassero bene per l'industria nascente. E qui sorse un importante dibattito tra almeno due posizioni: la prima voleva una scuola dove si imparasse il particolare officio che l'allievo avrebbe dovuto replicare nella fabbrica, la seconda, più articolata e lungimirante (anche se perdente allora ed oggi), è ben riassunta da queste parole (1886) del chimico milanese Luigi Gabba (di ritorno da una visita alle scuole di chimica austriache) [7]:

non contribuiranno mai a far progredire le applicazioni della scienza all'industria quelle sedicenti scuole pratiche dove l'allievo non fa altro che riprodurre, o tentare di riprodurre, in piccolo le operazioni che si fanno in grande nelle officine. Tractant fabrilla fabri; che è quanto dire che la pratica industriale, non si può imparare nella scuola, ma, quando si è ben famigliari colle basi scientifiche dell'industria, l'esercizio pratico di quest'ultima non presenta difficoltà alcuna, né esige un lungo tirocinio nell'officina.
Serve scienza e null'altro che scienza, solo un personale tecnico fornito di solida cultura scientifica può far progredire l'industria.

Ed aggiungeva:

E' ormai generale l'accordo intorno alla necessità di appoggiare la pratica alla teoria, di affratellare, cioè, l'industria alla scienza; è parimente unanime l'opinione che uno dei mezzi più efficaci per favorire il progresso industriale risieda nella maggior possibile popolarizzazione delle scienze, e che l'istituzione di scuole apposite dove si insegnino le scienze nelle loro applicazioni all'industria sia una necessità urgente, se si vuole davvero affrontare con speranza di successo la gara dell'attività industriale e riuscire, almeno in alcuni rami, a rendersi indipendenti dall'estero.

Era infatti quella l'epoca di una totale dipendenza dall'estero oltre che per materie prime e sistema del credito, per manodopera qualificata, tecnici, capireparto e direzione degli impianti. La risposta a questa invasione era stata il protezionismo al quale, già nel 1888, uno degli ambienti scientifici e tecnici più evoluti, la Società d'incoraggiamento d'Arti e Mestieri di Milano, così rispondeva [7]

vano sarebbe il lottare colle tariffe doganali a difesa della produzione nazionale, vano creare alla frontiera barriere protettive contro le merci straniere se la principale forma di protezione, la più legittima, quella che mediante l'istruzione agguerrisce l'opera produttrice nel capitale che natura  ha fornito all'uomo, non prendesse assetto conforme ai bisogni del tempo e del paese. Occorre in ultima analisi  prendere atto — aggiungeva Alessandro Rossi, pensando all'anacronistico sistema educativo italiano — che  la civiltà di un popolo non si valuta più oggimai alla sola stregua della sua coltura classica o dal suo progresso nelle arti belle, ma principalmente dal potere di resistenza che posseggono le sue istituzioni economiche e sociali nella lotta per la vita.

Come per ogni altra questione riguardante la scuola, fu la Legge Casati, a seguito di un dibattito che era nato almeno nel 1859, a dare le prime linee strutturali della scuola secondaria. C'è subito da dire che lo stesso accentramento che riguardò la Scuola Elementare fu anche almeno di un parte della Scuola Secondaria, quella ad indirizzo classico, la disinteressata e varia, (il sistema ginnasio - liceo, 5 + 3 anni dopo la scuola elementare, che permetteva l'accesso a qualsiasi facoltà universitaria) che era quella destinata a formare le classe dirigente. Quella ad indirizzo tecnico professionale, la utilitaria e parziale, non trovò una chiara sistemazione normativa in Casati. Con la Legge Coppino si chiarì almeno che si avevano due ordini di studi secondari e due specie di istituti che vi corrispondono, i classici ed i tecnici. La scuola normale, quella per la preparazione dei maestri ed alla quale si accedeva dopo i due più due anni (biennio inferiore e biennio superiore) di scuola elementare, venne inclusa tra le scuole secondarie nel 1896, quando si istituì la scuola complementare triennale quale suo corso 

Fonte: Giovanni Genovesi - Storia della scuola in Italia dal Settecento ad oggi - Laterza 2000.

propedeutico dopo la scuola elementare (in pratica la sua durata era di 6 anni senza possibili accessi universitari). Vi erano poi gli istituti nautici, anch'essi inseriti tra le scuole secondarie. Vi erano infine le scuole tecniche in senso stretto (comune, agraria, industriale, commerciale) della durata di tre anni. Tra queste solo l'ultima prevedeva l'accesso ad un quarto anno di specializzazione (su cosa non si capì mai). Tra le specializzazioni, solo quella fisico-matematica permetteva l'accesso all'università, solo ad ingegneria attraverso un biennio di matematica.

Come si può vedere nella tabella allegata, solo il sistema ginnasio - liceo era articolato. Dopo un triennio di ginnasio inferiore, si divideva in indirizzo classico o moderno (ambedue costituiti da 2 anni di ginnasio superiore + 3 anni di liceo). Dopo il ginnasio superiore era possibile (nei due casi) scegliere il corso magistrale di due anni che non dava però accesso all'università. Dico subito che la differenza tra l'indirizzo classico e moderno consisteva nell'assenza del greco nell'indirizzo moderno e l'introduzione, in suo luogo, del disegno e di una lingua moderna (osservo che la Legge Casati aveva fatto importanti ma parziali modifiche ai programmi per la scuola classica con l'introduzione in essa dell'insegnamento della matematica, della chimica e delle scienze naturali !).

Quanto ho illustrato era la scuola della quale si disponeva prima della Riforma Gentile. Per arrivare a tale sistemazione ci vollero molti anni e molti aggiustamenti qua e là che sarebbe lungo e poco utile in questa sede analizzare (più oltre darò qualche cenno). E' invece interessante capire in base a quale linea di pensiero si cercò di strutturare la scuola in un modo piuttosto che in un altro.

Intanto vi era un dato: come già accennato, l'istruzione classica era per le famiglie abbienti, per proseguire gli studi all'università, per venire incontro alle esigenze di coloro che si fossero avviati alle attività intellettuali e alle professioni liberali, per formare la classe dirigente del Paese. La scuola tecnica e professionale era invece destinata alle classi subalterne, quando non si fermava agli stadi precedenti (dopo il primo biennio elementare, dopo i due bienni elementari, dopo i tre trienni elementari, l'ultimo triennio essendo stato proprio pensato per chi non proseguiva gli studi). La diversa destinazione dei due tipi di scuola ha un chiaro riflesso anche nei finanziamenti. Il ginnasio - liceo è finanziato dallo Stato ed ha, compatibilmente con l'offerta, i migliori professori. Le scuole tecniche sono finanziate dai comuni (scuola tecnica) e dalle province (istituti tecnici). Gli orari scolastici sono simili a quelli delle scuole elementari: si frequenta mediamente 170 giorni l'anno con all'incirca 880 ore per classe.

Per capire come erano intesi professionalizzanti in termini bassamente utilitaristici gli istituti tecnici ci si può riferire ai giorni di lezione occupati dalle discipline tecniche: 137 sui 170 suddetti. Inoltre vi era una incredibile parcellizzazione di discipline: erano 76 nell'arco del corso, da confrontarsi con le 9 del sistema ginnasio - liceo (qui, conseguentemente, vi sono molte maggiori possibilità di approfondimento, di elaborazione, di comprensione). Inoltre l'articolo 283 della Legge Casati non dava certezza sull'apertura di questo tipo di scuola; la riservava ad una possibilità legata al bisogno che il movimento industriale e commerciale avesse manifestato.

Anche il classico, pur essendo quello con maggiori risorse ed il più pensato, ha dei grossi problemi dovuti alla scarsa preparazione di coloro che lo hanno progettato. La filosofia, ad esempio, è insegnata solo nel liceo per due ore a settimana ed è filosofia elementare senza nessun suo inserimento in una qualche prospettiva storica. Si dispone invece di 4 ore per storia e geografia storica considerate insieme.

L'indirizzo tecnico merita una discussione un poco più approfondita. Intanto c'è da osservare l'ampia divaricazione tra dibattiti teorici e realizzazioni pratiche. Come vedremo, da una parte si discuteva in modo approfondito delle esigenze dell'industria nascente, dall'altra, nel far questo, si pensava non all'industria italiana ma a quella tedesca, francese, britannica, si pensava cioè a ben altre realtà produttive e culturali con storie molto importanti e con tradizioni ormai sedimentate. Era l'arretratezza culturale della maggioranza dei nostri industriali, che restavano comunque una minoranza nella borghesia imprenditoriale, che portava a queste conclusioni. La scienza e la tecnica erano intese come un qualcosa che dovesse servire subito, come appendice alla produzione, senza una qualche loro individualità ed autonomia che permettesse loro di crescere. A questo proposito commenta Lacaita [7]:

Scopo dell'istruzione nella concezione degli industriali era, in ultima analisi, quello di creare non già dei soggetti capaci di scegliere e di decidere dentro e fuori la fabbrica, ma degli abili e obbedienti esecutori. Lo affermava senza mezzi termini « L'Industria », che del nuovo ceto imprenditoriale settentrionale era uno degli organi più autorevoli: ciò che si vuole che l'operaio abbia è una « abilità consistente nella precisione della manualità e non  nel raziocinio »; per cui inutile e pericolosa sarebbe un'istruzione di grado più elevato e di carattere teorico: « la massa operaia da alcune nozioni teoriche non ricaverebbe alcun vantaggio per il suo lavoro, e si illuderebbe solamente di poter cangiare posizione [...]. Che cosa gioverebbero ai soldati nozioni di tattica e strategia, dacché i capi non si possono scegliere fra le loro file? ». Lo stesso discorso vale anche per gli anelli superiori della catena produttiva, per quegli « abili tecnici » per es., da formare nelle scuole secondarie, in modo che dopo i « buoni studi preparatori, possano abituarsi di buon'ora al lavoro pratico e paziente degli stabilimenti».

Così si andò a parare a scuole tecniche usa e getta, coloro che le frequentavano potevano contare su occupazioni provvisorie non risultando preparati a nessun tipo di flessibilità. Non a caso, la gran maggioranza di tali scuole non dipendeva neppure dal Ministero dell'Istruzione ma da quello dell'Agricoltura, Industria e Commercio. Ed unitamente alle posizioni ufficiali vi erano quelle della borghesia aristocratica e reazionaria che neppure si vergognava di sostenere la divisione verticale tra istruzione classica e tecnica con argomentazioni come la seguente [7]:

in una scuola dove fossero raccolti giovanetti di varie classi sociali, ci sarebbe pericolo che quelli degli strati più bassi non avessero ad esercitare malefiche influenze sugli altri e guastarli e corromperli. (Dalla Relazione della Commissione reale per l'ordinamento degli studi secondari in Italia, Roma 1909).

A queste sciocchezze si opponevano i democratici come Cesare Correnti che, ancora nel 1870, scriveva [7]:

Ci pare  che la divisione fra le discipline letterarie e le tecniche sia degenerata ormai, con infelice progresso, in opposizione e contraddizione manifesta. Ci pare che le scuole dell'adolescenza, ove veramente si edificano le anime e onde esce l'uomo e il cittadino, non abbiano a contrapporsi duramente le une alle altre, quasiché siano destinate a preparare due caste diverse, a crescere da una parte i fuchi aristocratici e dall'altra le api operaie. (Dagli Atti della Camera dei Deputati, Legisl. X, Sem. 2, Documenti n. 70).

La scuola normale (quella che serviva per la preparazione dei maestri), per parte sua, era in deprecabile abbandono e formava in modo totalmente insufficiente chi doveva poi essere il maestro della Scuola Elementare. Si saltellava su argomenti (neppure si parla di discipline) come canto corale, disegno, educazione fisica, geografia, storia patria, aritmetica, storia naturale, agraria, italiano, pedagogia, morale, religione, ... Anche qui si ipotizzava un utente, il fanciullo, che nella pratica non esisteva. Si puntava alle nozioncine sparse, si frequentava un numero di ore minore, circa il 60% delle ore erano suppostamente professionalizzanti del tipo lavori donneschi e agraria (per i maschi). Si credeva insomma che non servissero maestri preparati. Intanto si pensava a quel ruolo soprattutto per le donne che saprebbero trasferire con la dolcezza e la pazienza che le contraddistingue quelle infarinature di cui prima. Questo luogo comune si manterrà per moltissimi anni. Si trattava di un  pregiudizio che ha dietro altri pregiudizi (la donna non è in grado di essere molto preparata) e che provocava conseguenze deleterie: per insegnare alle elementari e soprattutto ai meno abbienti non serve avere una grande preparazione, né da un punto di vista didattico né da un punto di vista culturale. Comunque si voglia guardare questa situazione deprimente, resta il fatto che coloro che uscivano da tali scuole erano assolutamente impreparati sia didatticamente che culturalmente.

E' che l'Italia è Paese distorto nella sua crescita, condizionata da una lunga storia di ingerenza ecclesiastica. Ricordavo, con Gabelli, ad inizio del paragrafo la vicenda della deriva classica che abbiamo ereditato al momento dell'Unità. E, ad un certo punto, ci si è ritrovati con una scuola che sfornava più tecnici e più laureati di quanto non necessitasse. Ma questo non inganni. Da noi le cose andavano in senso opposto a quanto accadeva nel resto dei Paesi Europei: non è la crescita del Paese che provoca il fenomeno suddetto, è invece il fatto che il sistema economico e produttivo non riesce ad assorbire la manodopera qualificata che si crea con l'illusione dell'emancipazione. Di fronte alla crescente disoccupazione si aprono sempre più  gli accessi alla scuola secondaria, con particolare riguardo a quella tecnica.  Quest'ultima si dequalifica sempre più in modo da creare un circuito perverso nel quale i meno abbienti continuano ad essere le vittime, i disoccupati nel serbatoio senza sbocco della scuola. La scuola liberale smentisce nella pratica i suoi propositi teorici. Non ci si emancipa in questa scuola ma è la sanzione ufficiale della differenza di classe. E ciò che dispiace è l'adesione, almeno iniziale, allo status quo di personaggi come Salvemini e gran parte del Partito socialista. Scriveva infatti Mondolfo in Critica Sociale, illustrando i tre punti del programma socialista sulla scuola (1908) [7]:

L'obbligo di provvedere all'istruzione elementare prima che ad ogni altra, il bisogno di scuole che seguano e aiutino lo sviluppo della vita economica nazionale e perfezionino le abilità tecniche dei lavoratori, la necessità di un ordinamento che spinga in alto i migliori e dia la possibilità di scegliere in tutta la grande massa sociale quelli che dovran compiere funzione direttiva,

con quel terzo punto che faceva finta di nulla a proposito del fatto che solo coloro che provenivano dal classico risultavano i migliori in quanto solo loro potevano accedere all'università e comunque a funzioni dirigenti. E' la visione fatalista dei socialisti che vedono l'evoluzione sociale, più positivista che marxista, determinata proprio dai quei rapporti di produzione che affermano di voler modificare, con gli operai ed i loro figli che continueranno a fare i loro uffici senza neppure pensare di poter diventare classe dirigente. Occorrerà aspettare il primo dopoguerra per un radicale cambiamento di queste posizioni, ad opera di Gramsci ed anche dei riformisti ravveduti, come Mondolfo che, nel 1920 scriveva su Critica Sociale [7]:

L'interesse vivo, che oggi mostrano ai problemi dell'istruzione le organizzazioni della classe lavoratrice,  non può [...] fermarsi nell'ambito della scuola primaria, sia pure estesa nella sua durata, e integrata con le professionali, perché limitandosi a queste, si verrebbe a considerare definitiva quella preminenza della borghesia (accedente alle scuole medie e superiori) sul proletariato (ristretto nell'ambito delle inferiori ), che oggi invece il proletariato aspira ad abbattere in una società senza differenze di classi. E in preparazione di quella appunto preme al proletariato di conquistare quelle capacità non esecutive soltanto ma direttive, non di lavoro materiale ma intellettuale, che solo i gradi più alti dell'istruzione posson dare.

Ma è inutile recriminare sulle posizioni socialiste prebelliche se si pensa che, alla fine, tutti (liberali, cattolici ed idealisti) accettarono la scuola classica imperniata sulla filosofia come portante e nessuno si oppose all'aumento dell'iniziativa privata nell'impresa scolastica (scuola e sua organizzazione). Solo in concomitanza del periodo del decollo industriale (primi anni del Novecento) si avrà un qualche impulso delle scuole tecniche professionali. Ma i dati mostrano che la cosa avviene dopo, mostrando che è l'industria che traina e non la scuola. In ogni caso, l'età giolittiana mostrò maggiore attenzione ai problemi del raccordo della scuola con l'industria. In questo periodo (1903), un politico molto avanzato, Nitti,  recepì in pieno le istanze dei più evoluti sostenitori di moderne scuole tecniche come il Rossi ed il Gabba che affermavano un fatto di rilievo che non fu mai recepito

l'insegnamento tecnico può essere solo promosso in larga misura dallo Stato, che deve seguire i bisogni della produzione e che solo può sacrificare per lo sviluppo generale fondi rilevanti.

Occorre aggiungere che sulla strada del potenziamento delle scuole tecniche professionali si stavano muovendo sia i cattolici militanti del movimento sociale pratico, sia il partito socialista che quello operaio. I primi  pensavano tali scuole, che la carità dei più abbienti doveva realizzare come iniziative private, con fini caritatevoli ed assistenziali per colmare l'abisso scavato dalla rivoluzione tra il povero e il ricco (come diceva il conte Stanislao Medolago Albani nel 1878). Gli altri pensavano allo Stato per l'emancipazione e la trasformazione dei lavoratori in un proletariato industriale paragonabile a quello degli altri Paesi europei. In questa emancipazione aveva un ruolo importante anche la scienza come mezzo più idoneo per
 
intendere le cose di questo mondo nel loro complesso, cioè nell'intima relazione che esse hanno fra loro e nello scopo universale a cui mirano (dal quotidiano del Partito Operaio, il Fascio Operaio del 12 agosto 1883).

I successi relativi di queste spinte, come accennato, vi furono in concomitanza con il decollo economico quando si ebbero sia il potenziamento che un maggiore finanziamento di queste scuole. La borghesia italiana era solo in piccola parte industriale, molta di essa era ancora agraria, legata alla rendita immobiliare ed alla speculazione finanziaria. Furono fattori esterni che dettero un contributo decisivo alla comprensione del problema ed all'avviamento della sua soluzione. Innanzitutto la crisi economica di fine secolo che, a seguito di una rottura con la Francia, ci privò dei suoi tecnici lasciandoci impotenti di fronte all'incapacità di mettere in moto svariati processi industriali; il fallimento della dura repressione di fine secolo mostrò l'impossibilità di governare contro gli operai e le loro organizzazioni; il farsi strada del convincimento che occorre sostituire la repressione con il confronto. E proprio a fine secolo iniziò il sorpasso dei finanziamenti all'istruzione tecnica, rispetto a quella classica. Tale primato crebbe di molto anche successivamente con le necessità indotte dalla guerra e dal dopoguerra (le scuole governative triplicarono, quelle private raddoppiarono gli iscritti). Le scuole tecniche inizieranno ad essere frequentate anche da piccola e media borghesia che iniziava ad intravedere sbocchi non meramente subordinati a salari di fame. La tecnica comincia ad entrare nella cultura popolare come elemento neutro, da non disprezzare. Gli insegnanti videro migliorare le loro condizioni economiche, furono varate iniziative per far crescere la professionalità degli insegnanti, le dotazioni dei laboratori crebbero, nacquero istituti di coordinamento, si sottrassero molte iniziative alle opere pie per riportarle allo Stato, si raccordò meglio la scuola tecnica professionale con quella elementare, si potenziarono le scuole nel Mezzogiorno che erano in grave ritardo per difetti di nascita (ricordo che la Legge prevedeva che le scuole tecniche potevano nascere solo dove vi fosse una realtà industriale).

Ed i professori di tale scuola, come venivano reclutati ? La Legge Casati era chiara: solo i laureati potevano insegnare nella scuola secondaria pubblica (alla laurea universitaria si aggiunse anche un precario e superficiale Magistero). La legge prevedeva un concorso per essere assunti. Superato il concorso si diventava titolari. Vi erano poi i reggenti (con il titolo ma non vincitori di concorso), gli incaricati annuali (cattedre vacanti o discipline complementari o da poco, come  le discipline scientifiche, le lingue straniere, il disegno) e i licenziati universitari (coloro che erano in attesa di concorso ed erano stati assunti perché la scuola era necessitata). Tutto questo sulla carta. In pratica la situazione del Paese era l'assenza di laureati sufficienti a far fronte alla richiesta (solo nei primi anni del Novecento si risolverà il problema del reclutamento degli insegnanti laureati). E così si inaugurò l'infausta stagione della provvisorietà e della discrezione, quest'ultima favorita dalla stessa Legge Casati che prevedeva si potesse assumere anche chi fosse bravo ad insegnare, avesse esperienza di insegnamento, conoscesse bene determinati argomenti, ma non avesse superato il concorso non essendo laureato. Nacque così la categoria degli insegnanti legittimati, la grande maggioranza, assunta in modi spesso clientelari, quasi sempre privi di una preparazione almeno accettabile soprattutto nel settore delle scuole che meno interessavano, quelle tecniche, proprio quelle dove una grande preparazione sarebbe stata auspicabile.

I successivi governi non si preoccuparono mai della preparazione degli insegnanti e tanto meno del loro aggiornamento (oltreché della cronica mancanza degli insegnanti di matematica). A questa pletora di strani personaggi non venivano corrisposti aumenti, se non in quantità ridicole, a salari di fame. Era invece di grande interesse per il Ministero il ruolo dei controllori, dei presidi (scuole classiche) e dei direttori (scuole tecniche)

erano l'occhio, la voce e il braccio del padrone che tutto sorveglia e controlla, tutti ammonisce, riprende e punisce. Essi, puri esecutori ministeriali e figure educativamente squalificate, sono avvertiti dagli insegnanti come una «quinta colonna» da cui stare cautamente alla larga [2].

Con la crescita economica, con l'accesso alla professione di laureati, di provenienti anche da settori della media e piccola borghesia, ai primi del Novecento nacque una minima coscienza sindacale che aveva però dei limiti nel ritenersi il professore diverso dagli altri lavoratori. Egli non si abbassava ai metodi di lotta del proletariato. La sua presunta condizione di privilegiato lo pone piuttosto a fianco dei padroni (solo pochi acquisiranno una vera coscienza sindacale e tra questi Kirner, Mondolfo, Rodolico, Salvemini, ...). In ogni caso, di fronte a qualche lotta che si innestò in alcune realtà scolastiche, il Ministero agì come un pessimo padrone, con la serrata dei concorsi: pochissime cattedre bandite sempre più di rado e posti coperti da precari o, peggio, leggittimati.

Comunque vi fu chi tentò la realizzazione dell'aggiornamento. Tre scuole presero l'iniziativa, quella degli herbartiani (tra cui Credaro), quella psicofisiologista (tra cui Montessori) e quella idealista, la più consistente (tra cui Gentile, Lombardo-Radice, Codignola). La posizione idealista prevedeva il ricorso allo Spirito che avrebbe ispirato ogni insegnamento. E' la filosofia che rappresenta la preparazione del docente, niente pedagogie. Fu la scuola di pensiero che, a breve, avrebbe vinto.

 




Per agevolare la lettura, questo testo è stato diviso in venticinque parti.
All'introduzione
Alla parte successiva

Gli articoli apparsi originariamente su questo sito possono essere riprodotti liberamente,
sia in formato elettronico che su carta, a condizione che
non si cambi nulla, che si specifichi la fonte - il sito web Kelebek http://www.kelebekler.com -
e che si pubblichi anche questa precisazione
Per gli articoli ripresi da altre fonti, si consultino i rispettivi siti o autori




e-mail


Visitate anche il blog di Kelebek

Home | Il curatore del sito | Oriente, occidente, scontro di civiltà | Le "sette" e i think tank della destra in Italia | La cacciata dei Rom o "zingari" dal Kosovo | Il Prodotto Oriana Fallaci | Antologia sui neoconservatori | Testi di Costanzo Preve | Motore di ricerca