Dodici buone ragioni per l’antiamericanismo
 


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Miguel Martinez



Un libro scritto in tedesco, che riesco a leggere tutto di un fiato, senza nemmeno bisogno di un dizionario, deve avere qualcosa di speciale. E infatti, oltre a essere scritto in modo chiarissimo, Ami go home: Zwölf gute Gründe für einen Antiamerikanismus di Wilhelm Langthaler e Werner Pirke (Vienna, Promedia, 2003) è un ottimo libro. In 143 pagine, offre un panorama della questione americana, cioè del principale problema dei nostri tempi.

“Antiamericanismo” non vuol dire essere contro l’America, ma contro l’americanismo. Specificano infatti gli autori:

libro di Willi Langthaler


L’americanismo per noi non è solo un’idea, un mito o un’ideologia. Piuttosto, è un sistema nella sua totalità che diffonde ‘shock and awe’ su tutto il mondo. L’antiamericanismo come lo intendiamo noi non è indirizzato contro il popolo americano. Proprio come l’antifascismo non dovrebbe mai significare una condanna del popolo tedesco. Uno dei motivi che portiamo a sostegno dell’antiamericanismo è proprio la repressione interna contro gli americani stessi”.
Il termine “antiamericanismo” si presta a molti equivoci e ovviamente crea qualche problema anche per chi, come me, è due volte di origine americana: per metà statunitense, per metà messicano. Ma il senso è chiaro. E dovrebbe anche essere condivisibile.

Dare la caccia agli “antiamericanisti”, accusati variamente di odiare Marilyn Monroe, la libertà d’impresa, la democrazia e – perché no? – anche l’umanità, è una moda assai diffusa di questi tempi.

Molti ritengono che ogni critica verso la società americana sia una forma di invidia del “meritato successo” di una potenza che si afferma sui piani che tanti oggi ammirano – la ricchezza e la forza militare. Laicizzando il paradigma biblico della povertà come segno del peccato, il teorico italiano del maschilismo duro, Claudio Risè, scrive una “Psicopatologia dell’antiamericanismo” per dimostrare che la ribellione al dominio è una forma di malattia mentale (Risè è membro del Comitato Scientifico della Fondazione Liberal. Reminiscenze degli studi di Cesare Lombroso sulle malattie innate che avrebbero indotto tanti a farsi anarchici ai suoi tempi.

Altri, politicamente al polo opposto, si immaginano ancora classi operaie planetarie che non vedono l’ora di strappare il potere a classi padronali altrettanto universali: parlare male degli USA ricadrebbe quindi nel nazionalismo piccolo borghese o in qualche altra comoda categoria delle eresie da scomunicare.

Altri ancora sono semplicemente frastornati dal linguaggio orwelliano della propaganda USA: guerre umanitarie, missioni di pace, esportare la democrazia e altri mostri logici e linguistici hanno comunque un loro effetto.

In realtà, rendersi conto che gli Stati Uniti siano la forma più avanzata e aggressiva del capitalismo di tutti i tempi non è per niente petit bourgeois, psicopatico o intrinsecamente perverso. è semplicemente buon senso.

Un libro breve su un tema così enorme come l’americanismo corre molti rischi: emotività o utilizzo di statistiche approssimative, ad esempio. Langthaler e Pirke riescono invece a trattare un gran numero di elementi in maniera semplice ma ordinata. Ovviamente una recensione non può prendere il posto della lettura di un libro, per cui mi limito qui a elencare le “dodici ragioni” che gli autori segnalano per opporsi all’americanismo: