La dignità del jihad
 


Il titolo è ingannevole, tanto che non stavo nemmeno per comprare il libro: La caduta di Baghdad.

Pensi subito, caso peggiore, al racconto di un giornalista che io c'ero.

Nel caso migliore, a un tipo di letteratura che ha una propria nicchia: le brutte storie delle vittime innocenti, la narrazione di una persona che si è trovata suo malgrado tra due fuochi. Che da una parte, permette di condannare l'invasione, dall'altra anche chi a quell'invasione resiste.

Invece, La caduta di Baghdad è un libro di tutt'altra natura. Racconta una storia molto semplice.

Quella di Shadi, studente di medicina, siriano, di famiglia laica e comunista e di radici beduine, che nel marzo del 2003, a guerra cominciata, parte volontario per combattere nel jihad in Iraq, o - come dice lui stesso - "Chi avrebbe mai immaginato che con le mille lire risparmiate per comprarmi un bel paio di jeans sarei finito all'ufficio di leva a richiedere il nulla osta per il viaggio!"

L'esperienza è breve - una ventina di giorni - e piuttosto confusa, visto che gli iracheni non sapevano bene cosa farsene delle migliaia di giovani che affluivano da tutto il mondo arabo. Shadi vede l'azione una sola volta, quando lui e i suoi compagni sparano con armi impotenti contro una gigantesca colonna di mezzi militari, e lui si salva per miracolo. Ritorna infine in Siria.

Ma proprio perché piccola e profondamente umana, quella di Shadi è la storia di centinaia di migliaia di giovani arabi in questi ultimi anni, che si rinnova incessantemente.

Alessandra Persichetti, docente di antropologia politica all'università di Siena, e Akeel Alamarai, docente di arabo all'Università per stranieri di Siena, hanno fatto parlare per ore, non solo Shadi, ma anche la sua famiglia.

Ciò rende unico questo libro, perché si sentono insieme tutte le voci: la paura e l'orgoglio della famiglia, i dubbi ma anche il rispetto di una famiglia in apparenza laica, rotture e riavvicinamenti tra le generazioni, le differenze tra famiglie di origine urbana e quelle di origine nomade, il rapporto tra stato e gente, i legami di sangue e tribali, i divertimenti giovanili, il senso della tremenda minaccia che incombe senza posa sugli arabi e sui musulmani.

E soprattutto i mille volti di quell'entità misteriosa e sfuggente che è l'Islam.

Ne nasce qualcosa di profondamente autentico. Il testo, come ogni ricerca seria, smentisce ovviamente le tesi cretine di "lavaggio del cervello" da parte di "predicatori dell'odio": è stata l'invasione americana, e non l'incontro con qualche predicatore, a spingere tanti giovani che cercavano di studiare e divertirsi a rischiare tutto.

Ma il libro evita anche di cadere nell'errore opposto. Esiste tutta una letteratura che, in perfetta buona fede, si oppone allo scontro di civiltà cercando di rappresentare "gli arabi come occidentali", negando o sminuendo l'importanza del discorso islamico, attribuendo la lotta armata a frange che agiscono per "disperazione".

Il libro di Persichetti e di Almarai restituisce invece dignità e profondità al jihad, come scelta lucida di autodifesa, come internazionalismo volontario, ma anche come esito di una complessa e ricca cultura araba e musulmana, con tutte le sue contraddizioni e le sue trasformazioni.

Alessandra Persichetti e Akeel Almarai, La Caduta di Baghdad. Venti giorni di jihad in Iraq nel racconto di un ragazzo arabo, Bruno Mondadori, 2006.




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