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La rivista de il manifesto numero
22
novembre 2001
Sinistra, movimenti, guerra Rossana
Rossanda
Pietro Ingrao, Rossana
Rossanda
Si dice che dopo l’11 settembre tutto è cambiato. Lo pensi anche tu?
Pietro Ingrao
L’accaduto è enorme. Nelle sue due facce: la fine dell’‘isola’
americana, la violabilità di quel territorio, che non era avvenuta nemmeno a
Pearl Harbor; e la ‘guerra santa’ che si consuma in un altopiano desolato
dell’Asia centrale.
E sembrano mutare anche le istituzioni occidentali deputate alla guerra. Forse
sbaglio: ma in questo conflitto anche la Nato in qualche modo è messa in
disparte. Alla testa della guerra riparatrice e risanatrice sta – prima di
tutto – l’anglicità, l’ antico ceppo dei Padri Pellegrini che nel
pericolo si ricompone. Poi vengono – ma a una certa distanza – gli amici
europei di rango: la Francia e la Germania (pentita e ormai riabilitata). Infine
la riconciliazione, prudente e graduata, con la Russia.
L’Italia viene palesemente dopo: potenza minore, in qualche modo macchiata,
infetta di mediterraneità. C’è una sorprendente marginalizzazione
dell’Europa. Senza dichiararlo, la costellazione del potere nel globo si
sposta e flette attorno al Principe americano. Dieci anni dopo l’America torna
a sistemare i conti con il mondo arabo, e stavolta s’affaccia sull’Asia dal
lato europeo: in quella zona caucasico–mesopotamica, cruciale per la civiltà
giudeo-cristiana come per l’Islam (qualcuno dice per uno ‘scontro di civiltà’).
E c’è un attore sinora muto, la Cina, con cui Bush è andato a firmare patti;
ma quanto presente, nel rimescolamento del conflitto che questo caldo settembre
– un’estate che non vuole morire – reca con sé.
Vedo meno di te uno scontro tra America puritana e Islam, alla Huntington, se
mai un conflitto del ‘modello globale’ che stavolta si gioca sul terreno del
mondo islamico e arabo. E certo un ulteriore impallidimento della fisionomia
europea. Ti raggiungo quando concludi: la costellazione del potere si
ridefinisce. Nel quale tutto quel che succede va avanti condizionato, si direbbe
riproporzionato. Prendi il congresso dei Ds: si farà tra qualche giorno; pareva
un appuntamento decisivo per la scena politica e invece è quasi scomparso. Come
se il già famoso partito della sinistra italiana contasse meno, e ancora meno
appassionasse chi sarà a dirigerlo, D’Alema-Fassino o Berlinguer-Cofferati.
Questa non è già una risultanza congressuale?
Sì, buona parte del congresso diessino si è fatta nel fuoco dei giorni scorsi,
quando è tornata in campo la questione della guerra al livello del ventunesimo
secolo: la sua riabilitazione come strumento essenziale e legittimo della
politica. E con essa le forme della primazia americana (o in certo modo
anglo-americana) in una fase di qualche incertezza degli Usa. Non so, ma mi
sembra che l’urto subito dagli Usa ha impattato con una stretta che già stava
mettendo in discussione forme e livelli della new economy, dei modi con
cui l’America in espansione ha gestito fasi e tempi del boom e della
globalizzazione. Sino, oggi, al rispuntare della parola ‘recessione’.
Il congresso diessino? è ridicolo pensare che esso si possa tenere al di fuori
e al di là di questa trama. Buona parte delle sue risposte sono già state
date: in Parlamento i Ds hanno detto sì alla guerra di Bush, e senza troppi
fronzoli. Se non vado errato, nell’aula di Montecitorio, da quegli scanni in
cui ho trascorso molte ore, tra i diessini una sola parlamentare, Fulvia
Bandoli, si è alzata a dire ‘no’; un’altra dozzina di parlamentari l’ha
sussurrato copertamente nelle urne. In Senato non c’è stata neppure questa
dissidenza. Quel voto in Parlamento è venuto prima del congresso e lo
determina: e – del resto – su che definire una identità politica, il
sentire e il pensare la società, se non discutendo nel foro pubblico sulla pace
e sulla guerra?
A meno che nelle prossime settimane non ci sia nei Ds una rivolta di base. Al
momento non la vedo. Sento qualche sospiro.
I Ds sembrano presi sempre di contropiede dagli eventi. Le elezioni
regionali, e poi il 13 maggio, avevano prodotto un sussulto, una domanda sui
guasti. Alla reazione di D’Alema – non c’è nulla da cambiare – la
sinistra obiettava che no, che andava riformulato il problema del conflitto
capitale-lavoro che era stato offuscato, e con esso l’afflato ugualitario e
partecipativo, la dimensione della ‘politica’ e del ‘pubblico’ rispetto
a quello dell’‘economia’ e del ‘privato’. Così a luglio. Ma arriva
Genova, prende i Ds alla sprovvista, pare dare argomenti alla sinistra, perché
poi la critica al liberismo era questo, investiva la globalizzazione. Ma la
discussione è appena partita che precipita l’11 settembre, e invece di
riqualificare lo scontro interno, la guerra lo azzittisce. Anzi si delinea prima
la tentazione di una ‘union sacrée’ col governo, poi un riflesso unitario
dentro al partito – basta criticare il passato, non dividiamoci – che va in
direzione di D’Alema. O no?
Il mondo di Genova si differenziava aspramente dai Ds (anche dalla sinistra dei
Ds): per i temi che evocava, per la distanza da tutte le mozioni congressuali
diessine, per la storia delle sue avanguardie e dei suoi capi. Credo che una
parte della sinistra diessina fu presente, a suo modo, nei giorni genovesi. So
che alla manifestazione romana di solidarietà con i no-global ci fu una
notevole partecipazione del popolo diessino: con rabbia e speranza. Ma la grande
parte della folla a Genova veniva da altre storie e da altre sponde. E dopo i
due giorni insanguinati buona parte della dirigenza diessina si limitò a
chiedere garanzie contro la persecuzione e le violenze degli apparati di
governo. Non volle, non seppe o non riuscì a raccogliere la speranza e lo
spazio di azione che il movimento no-global recava con sé. Non ne cavò uno
scatto, e nemmeno una riclassificazione della sua analisi.
Nelle rivendicazioni dei no-global c’erano acerbità e sovente anche sommarietà
di analisi e di linguaggi. Anche Rifondazione Comunista a volte cade in settarismi. Ma
sicuramente erano in campo sia una nuova presenza operaia – quella della Fiom
–, sia una nuova generazione di militanti di sinistra, sia una nuova cultura
(e pratica) di critica al capitalismo: esperienze, ripeto, forse ancora acerbe,
per nulla omogenee, con storie plurime alle spalle. Che doveva fare mai una
sinistra appena uscita da una dura sconfitta nelle elezioni, se non curvarsi su
queste nuove figure? Che per giunta si dichiarano aperte, e si definiscono ‘movimento’,
(anzi c’è chi le legge come ‘un movimento dei movimenti’)? Qualche volta
– da vecchio comunista – borbotto di fronte a un uso debordante della parola
‘movimento’, nonostante io stesso abbia civettato con questo vocabolo, così
eccitante e liberatorio, così vagamente fantasioso. Però, che stiano venendo
avanti nuovi attori politici, che guardano per quanto possono – ecco
l’essenziale – a una lotta sociale a livello internazionale, mi sembra
certo. Ed è una grande speranza. E allora dico, non a D’Alema (che è altro e
lo dichiara), ma alla sinistra dei Ds: non doveva spingersi di più, e almeno
interrogarsi su che significano questi ‘movimenti’? Non fosse che per
verificare se sono sempre i vecchi (voglio dire: già noti) ‘centri sociali’,
o anche altro, come a me sembra?...
Fa riflettere che proprio l’affacciarsi in altre figure di una critica al
modello sociale, che era lo specifico dei socialisti e comunisti, lasci
interdetti e contrariati gli epigoni di quei partiti.
Siamo tutti incapaci di uscire dalla nostra scatola e rimescolarci. Incapaci di
azzardare un processo unitario, proclamarlo e verificarlo in cammino, con
iniziative dichiarate, con un’agenda precisa. Di provarci in atti di rottura e
di invenzione: unirsi non è una sommatoria dell’esistente. La sinistra
diessina è anch’essa troppo autoreferenziale, stretta al suo sito.
Stretta, forse, alle compatibilità della lotta interna. La guerra è stata
sempre per le sinistre un crudele rivelatore. Stavolta dalle sinistre europee
non è venuto neppure un tentativo di interpretazione autonoma dei fatti e tanto
meno una reazione diversa da quella del presidente Bush. Anzi, paradossalmente,
l’amministrazione americana è parsa interrogarsi di più sia sulla
provenienza dell’attacco sia sulla risposta. Bin Laden e Al Qaeda non sono un
gruppetto criminale, sono una frazione della jihad, nascondono i loro uomini ma
non l’intenzione, sono insediati in Afghanistan fra quei Taleban che avevano
avuto sostegno dagli Usa in chiave anti-Urss, traversano ricattandole tutte le
dittature arabe, si sono alimentati nel giro d’affari finanziario mondiale,
puntano al rimescolamento del potere saudita, hanno mezzi ingenti, hanno
frequentato e conoscono tecniche di intelligence americane. Il mondo arabo è
adiacente all’Europa, si è intrecciato con la sua storia: non siamo quelli
che dovrebbero saperne di più?
Se intendo bene, tu ritieni che la sinistra italiana ed europea poteva avanzare
un’analisi, forse prevedere come volgeva un certo fondamentalismo degli ultimi
dieci o quindici anni, capirne il pericolo e avanzare una proposta sua...
Sì, stava nella nostra collocazione, persino nella nostra esperienza.
C’era stata in passato una qualche presenza nel Mediterraneo; c’era la
questione Israele-Palestina che ci interpella ancora più direttamente degli
americani; c’era la tremenda vicenda dell’Algeria. è un mondo lacerato,
antico, modernissimo e arretrato – insomma un vulcano. Non dovevamo avanzare
almeno qualche proposta di disinnesco? Lavorare sul serio per il ritiro degli
Usa dal Medio Oriente e per la fine delle sanzioni contro l’Iraq, per sanare
almeno in parte la ferita della Guerra del Golfo. Insistere per il rientro di
Israele nei confini del 1967, rispettando le risoluzioni dell’Onu invece che
guardare da spettatori al prolungarsi di negoziati sempre più avari e
all’insediarsi delle colonie, con il risultato che Arafat si è indebolito e
la destra israeliana rafforzata; abbiamo delegato agli Usa di premere su Israele
e ci siamo chiamati fuori, e adesso la situazione s’è aggravata al punto di
essere fuori controllo; neanche gli Usa sono in grado di sanare facilmente lo
sbrego, anche se oggi preferirebbero rattopparlo in fretta. Promuovere una
politica verso i paesi arabi che desse loro un interlocutore diverso dagli
accordi leonini fra dittature e interessi petroliferi, e poi strategici,
militari americani... Non facendo nulla di questo, neppure tentando, siamo ormai
alla terza guerra ai bordi dell’Europa in dieci anni.
Quelli che dici sono obiettivi difficili: tutti. Aggiungo una considerazione. La
risposta Usa allude a una rilettura e a un’attualizzazione del progetto di
governo mondiale. Le cronache e le immagini del paese afgano che abbiamo dinanzi
in questi giorni sembrano frutto di allucinazione: tale è la desolazione di
quei luoghi, la nudità delle esistenze, l’immagine di fame, di precarietà
degli abitanti, che si stenta a credere che questo sarebbe l’antagonista, il
nemico del possente universo capitalistico. No, questa guerra va oltre e fuori
da quel misero altipiano d’Asia. Mi pare che l’imperatore d’America, nel
momento in cui è provocato a reagire all’offesa, lavora a ridefinire il
mondo. Gli hanno fatto crollare le Due Torri, la new economy ansima e il
capitalismo, che era trionfatore, fatica non solo a controllare, ma persino a
misurare le contraddizioni che evoca.
è su questo scenario che si iscrive quella che si annuncia come una lunga
guerra. Pensa all’Asia, alla Cina. Si avverte negli Usa una domanda, una
inquietudine, non solo sugli esiti e i tempi della cattura di bin Laden e dello
spegnimento della rivolta che il suo terrorismo sembra alimentare, ma sulla
ristrutturazione della bilancia di governo mondiale. Che sicuramente si riflette
anche nel rapporto con l’Europa. L’America ridimensiona persino il ruolo
della Nato. Mette avanti altri interlocutori, cerca la già infida Russia. Di
certo guarda alla Cina.
Anche per queste ragioni, ma non solo per esse, dire no alla guerra resta una
rivendicazione ineludibile. C’è stato in questi anni un appannamento del
senso che gli avevamo dato nell’era dell’atomica e di altri strumenti di
sterminio di massa. Leggo i giornali italiani. Ascolto i discorsi. Non usano mai
la parola ‘guerra’. C’è un’ipocrisia, un inganno.
Dovremmo sforzarci di leggere anche cosa è il terrorismo di bin Laden in uno
scacchiere dove l’attentato è stato sempre di casa, per la acuta
conflittualità e il mancare o venir meno di una sua espressione e
razionalizzazione politica. Che il fondamentalismo, più o meno o per niente
terrorista, sia diventata nel decennio della globalizzazione l’ideologia della
protesta non solo contro le dirigenze che chiamiamo con un eufemismo
‘moderate’ ma contro gli Stati Uniti, sfidandoli crudelmente in casa, è un
problema. Non stava nella tradizione dell’Islam, che è stato una grande
cultura e più tollerante della nostra quando conquistò il Mediterraneo. Nasce
forse anche dal fallimento dei tentativi di politicizzazione laica degli anni
cinquanta e sessanta; c’è una responsabilità anche dell’Urss, che non
abbiamo mai esaminato.
Sì. E non ci si è resi conto abbastanza di che cosa poteva diventare
un’organizzazione terrorista in presenza d’una tecnologia e di una
comunicazione che rendono possibile l’accesso alle armi più sofisticate.
L’attacco alle Due Torri è impressionante anche per questo. è stato
sconvolgente non solo per il numero dei morti, la funebre grandiosità della
rovina, l’aver colpito il cuore di New York, l’avere fatto migliaia di morti
– è impallidito anche il volto di quel che ho chiamato ‘guerra celeste’,
mirata, che prometteva di lasciare le retrovie al loro vissuto quotidiano –;
sono state varcate insomma molte soglie che sembravano inviolabili. Ma sconvolge
anche perché ha usato tutti i mezzi della modernità: armi, tecnologia,
intelligence. Insomma bin Laden e i suoi sono un intreccio pauroso di interessi
e fanatismo, di modernità e di arretratezza. Rifiutare la guerra per
combatterlo domanda non solo un livello di convinzioni pacifiste difficile a
reggere, ma anche un ardimento, una convinzione, una volontà di tentare il tema
arduo di una risposta ‘non violenta’ – un’alta consapevolezza sul punto
cui sono arrivate le armi, la scienza dell’uccidere, dello sterminio.
Bisogna avere paura, una paura matta, delle armi iscritte oggi nella cognizione
dell’uomo. E bisogna cercare ostinatamente: altri modi di regolazione dei
conflitti e delle disuguaglianze feroci che il capitalismo così sofisticato del
terzo Millennio reca con sé. Qui non ci soccorre neppure Marx. E forse (dico:
forse) devono essere messi in campo valori ed esperienze che so soltanto evocare
con il linguaggio impolverato dei sentimenti: la tutela, il rispetto della vita
altrui quale essa sia, la mitezza, la debolezza.
Che cos’è il congresso diessino se non si ‘compromette’ su questo? Se no,
che intendiamo per politica?
Lo scenario mondiale era già assente in tutte e tre le mozioni congressuali.
è un cambiamento di cultura che forse si è verificata durante la Guerra del
Golfo, dopo la tua uscita, con l’adesione alla nuova Nato e alla guerra del
Kosovo. Certo adesso anche i Ds vanno senza una obiezione a quella che chiamano
un’azione di polizia internazionale, alla quale parteciperemo, ma non sapremo
nulla salvo che non ci sarà misericordia e si indennizzeranno gli afgani con
700 milioni di dollari. Che sinistra è questa che non si alza in piedi urlando?
Tu chiedi: che sinistra è questa... E hai in mente i diessini. Ma la prima
risposta che mi sale alla labbra è: ma questa formazione politica – i Ds –
da tempo non è sinistra. è una forza di centro.
Non voglio fare giri di parole. Nei cruciali anni tra l’’89 e il ’90 –
ai tempi della Bolognina per intenderci – non avvenne solo un mutamento di
nome, ma la fine di un soggetto politico. Io faticai parecchio a persuadermene.
Ed esitai a lungo a uscire da quel partito, proprio perché non mi rassegnavo. E
speravo ci fosse ancora uno spazio di discussione. Me ne andai quando mi resi
conto che non c’era e che quel Pds non era più un partito di sinistra, ma una
formazione politica di centro – per stare alla geometria politica in uso.
Rimbrottarla perché non si comporta come un partito di sinistra mi sembra
francamente un nominalismo, un non guardare le cose in faccia.
Beh, si definiscono socialismo europeo, e così sono definiti.
Bisognerà pure che ci intendiamo sul vocabolario. Tra loro e alcuni loro
alleati è molto in uso la parola socialismo. Socialismo europeo, di cui sarebbe
alfiere Tony Blair. Che abbia a che fare Blair con il socialismo passato e
venturo, confesso di non comprenderlo. Mi sgomenta il vocabolario in uso nella
nostra platea politica. Quanti si dichiarano socialisti in Italia? Giuliano
Amato, Valdo Spini, Ugo Intini, Gianni de Michelis! E Massimo D’Alema, Giorgio
Ruffolo.
Ma la parola ‘socialismo’ evoca almeno una lettura di classe: che si creda
non dico alla socializzazione dei mezzi di produzione, ma all’esistenza di un
conflitto tra capitale e lavoro. E si programmi di suscitarlo e orientare –
anche in un processo lungo, lunghissimo, gradualissimo quanto volete – questo
conflitto e il suo esito a favore degli operai contro i padroni, per ricorrere
al vocabolario di una volta.
Quanti fra i dirigenti e quadri dei Ds, da Morando a Veltroni a D’Alema a
Giovanni Berlinguer accettano questo schema di lettura? E se non l’accettano,
perché si rivendicano socialisti? E se Cesare Salvi o Marco Fumagalli pensano
che D’Alema non lo sia, non dico lo ‘smascherino’, come si diceva una
volta, ma spieghino, chiariscano se per loro invece dirsi socialista ha questo
significato di classe oppure no, ha a che fare con lo specifico rapporto di
produzione oppure no. Uscendo dalla rappresentazione della politica in termini
di floricoltura: tra querce e ulivi, margherite e biancofiori, e cespuglietti
vari.
Resta da chiedersi perché questa formazione di centro chiamata ‘Democratici
di sinistra’ ha approvato la scelta americana della guerra in Afghanistan. E
non soltanto i leader, compreso purtroppo Giovanni Berlinguer, ma quegli strati
popolari (operai, intellettuali, ceto medio borghese ecc.) che ancora oggi sono
il corpo e l’elettorato dei Ds. Qui però io sono meno sorpreso di te.
La mia tesi è che sia largamente avvenuta una americanizzazione della base
della sinistra, Ds inclusi. Che questo sia l’esito della svolta, combinato coi
mutamenti sociali d’un ‘popolo’ per due terzi affluente e consumista e per
un terzo superprecarizzato ed escluso. C’è ‘crisi della politica’,
astensione dal voto, calo del bisogno di ‘un partito’, ritiro nel privato
quando si smette di credere che è da scelte collettive che ne va anche della
vita e delle libertà del singolo. La politica è un optional quando ci si è
convinti che siamo in una società ‘aperta’ ai percorsi individuali, fra
proprietà, consumi, sesso e famiglia.
Circa dieci anni fa abbiamo ragionato insieme sulla mutazione che il capitalismo
del computer aveva apportato nel processo produttivo su scala ‘globale’. Non
sapendo dargli un nome (almeno questa è la mia convinzione) lo chiamammo
‘post-fordismo’. Tu lo chiami ‘americanizzazione’, e a me può star
bene, perché sottolinea la pellicola ideologica che avvolge la mutazione
produttiva, e ne indica per nome il capofila.
La riflessione del decennio su scala mondiale e il vissuto, l’esperienza
pratica, di questi ultimi anni permettono di definire caratteri e articolazioni
di questa sconvolgente mutazione compiutasi nel tramonto del secolo con la
stessa fredda enfasi con cui l’abbiamo letta nelle pagine di Marx (si
licet...). è questa novità che ha spezzato e ricomposto in altre dimensioni e
dislocazioni il soggetto operaio (uso il termine più semplice), che era per noi
il protagonista della rivoluzione.
Penso che la innovazione capitalistica avviata negli anni settanta abbia dato
nell’ultimo decennio del secolo il colpo definitivo nella sfida con l’Urss,
e abbia inciso sul punto chiave della lettura marxiana: sulla figura del
proletario collocato stabilmente nel territorio e partecipe (nei suoi modi e per
quanto poteva) della dimensione statale, quale era venuta definendosi
nell’Occidente, con una dilatazione della politica a livello di massa.
Altri hanno ragionato più e meglio di me sulla trasformazione dell’atto
produttivo che ha condotto alla frantumazione e dispersione della soggettività
proletaria e dei suoi sistemi di alleanza. Sia pure mantenendosi forte la
dimensione nazionale – intreccio che non bisogna oscurare – il capitalismo
di fine secolo si è ristrutturato e diramato nel pianeta, utilizzando al
massimo la libertà d’azione cui attingeva, e con un ‘disordine’ che non
sa bene come controllare.
Anche io penso che alla base c’è un mutare della produzione e perfino di
certi rapporti classici di proprietà, più concreta ai vertici e frammentata
alla base, sia nella pratica del lavoratore ‘autonomo’ che in quello
possessore di qualche azione, per non dire di quel che diventeranno come figure
sociali i detentori di fondi pensione. Ma pensando all’ex invaso di iscritti
ed elettori del Pci, per americanizzazione intendevo una mutazione culturale,
una idea di sé e della società. Alle variazioni della soggettività, su cui
non serve un giudizio morale, ma è utile un giudizio politico. Ti provoco sul
tuo terreno: mi accusi sempre di economicismo.
Davvero. E sai bene che io ostinatamente continuo a non credere
nell’economicismo, e penso che il soggetto capitalistico sia intriso di
politica e di ideologia. Dici americanizzazione? Non so. Da noi c’è ancora
una partecipazione alla politica, e articolata, che negli Stati Uniti mi pare
scomparsa, puramente professionale. C’è una forte partecipazione al voto in
rapporto agli Usa. C’è il restare dei partiti come un soggetto permanente,
per quanto quelli di massa si siano logorati. C’è un sindacato generalista e
non riducibile a struttura corporativa. C’è, perfino nei moduli della contesa
politica, l’uso dell’ideologia classista. C’è un forte solidarismo
sociale contro uno spietato individualismo. C’è perfino un certo ateismo, in
politica non si invoca Dio a ogni passo.
Sì, ma temo che siano forme residuali, sia pur consistenti, di fronte
all’avanzare d’un senso comune che nega in radice le ragioni della
tradizione di sinistra italiana. Il punto è che quando questa viene meno,
precipitiamo a destra. Siamo diventati di colpo, mancando un pugno di voti, il
governo europeo più a destra. Non sarà casuale. Manca la sinistra e non ci si
assesta affatto in una democrazia centrista, vanno al governo Berlusconi, Fini e
Bossi. Non si può più elucubrare sul fattore K, bisognerà chiedersi qualcosa
anche sulla fragilità della nazione italiana.
Di questa fragilità, scarsa consistenza democratica i comunisti erano stati
sempre timorosi, e anche eccessivamente: a ogni passo più a sinistra, Amendola
ci ricordava il tintinnar di sciabole. Anche il compromesso storico ha questa
radice. Resta la domanda perché in Italia non è mai classe dirigente una
borghesia illuminata. Fa impressione che Agnelli e perfino la Banca d’Italia,
già famosa per la sua autonomia, siano saltati in braccio alla Casa delle
libertà. Nondimeno restiamo un paese contraddittorio. Anzi penso che oggi si
comincia a vedere i segni di una risposta, di un’inversione di tendenza, di
una riscossa.
Lo annoto con tutta la trepidazione della speranza e l’incertezza che segue
sempre alla catastrofe politica:
a. le minoranze che resistono alla mutazione capitalistica stanno dandosi una
dimensione e una convergenza internazionali. Esse sono uscite dalle caserme o
casematte nazionali in cui resistevano. E hanno iniziato a incontrarsi, a
ragionare insieme, e anche – questo è forse il punto più interessante – a
costruire appuntamenti di lotta comune.
Cerco di spiegarmi. Prima c’era nella sinistra europea e italiana il rimando
ai guerriglieri del Chiapas; mi sembrava soprattutto un rimando sentimentale.
Restavano la desolante separazione fra le varie sinistre, il ripiegamento quasi
puerile di esse nelle caselle dei vari Stati europei, salvo scarsi momenti di
scambio intellettuale. (Tra parentesi: io non ho mai creduto che Cuba fosse un
punto di riferimento salvo il simbolo indistruttibile del volto del Che.) Da
Seattle invece è partito uno scatto, s’è delineato l’incontro
internazionale di forze antiliberiste, ma anche anticapitalistiche: sia pure con
gli squilibri, gli scarti di pensiero (le retoriche anche) che conosciamo. In
ogni modo è cominciato a germinare uno schieramento internazionale; con
elementi persino intercontinentali. Certo, sono varie e a volte dubbie, o
confuse, le culture, e diversi i livelli di iniziativa e di lotta. Però siamo
usciti dagli antichi confini nazionali. Ed è tornato in campo un
internazionalismo concreto, che sarà difficile per l’avversario di classe
scongiurare e cancellare. No-global è uno scarno slogan, ma indica un orizzonte
e una prima pratica di lotta ‘globale’, o mondiale. Torna un
internazionalismo attivo, combattivo. Non voglio illudermi. Ma è un fatto nuovo
dopo la frantumazione e la passività prodotte dalla sconfitta storica fra gli
anni ’80 e’ 90.
b. In questa lotta è scesa in campo una nuova generazione, forse con un suo
volto. Voglio dire che nelle pieghe della sconfitta si è perduta una parte: o
delusa, o trascinata da altre scelte e modelli di vita. E tuttavia ora,
visibilmente, giovani o giovanissimi stanno con militanti già maturi. Non si
tratta di impercettibili minoranze. Dico di più: al di là della quantità,
comincia un nuovo incontro di generazioni nella lotta. Negli ultimi due decenni
del secolo erano rimasti visibili, e solo in certi paesi, gracilissime minoranze
studentesche abbastanza corporative. Oggi il quadro giovanile a me sembra
qualitativamente diverso: per l’orizzonte che si dà questa gioventù, e per
la scelta di militanza che compie. Esagero forse; ma in una parte di queste
minoranze giovanili torna quella scelta e passione per la politica, che
sicuramente segnarono – nel bene e nel male – la fine dell’Ottocento e
tutto il terribile Novecento.
Ora siamo nuovamente dinanzi alla grande crisi della guerra, e il messaggio
americano è fortissimo. Ad altissima dose di simbolo.
Appunto. Tu stesso hai osservato che sul Kosovo «non c’è stato un
movimento per la pace adeguato» o «la parola disarmo l’avete dimenticata».
Non è un deficit di cultura, è un mutamento dell’idea di sé e del mondo ora
che l’egemonia è del capitale e una sola superpotenza detiene le redini del
pianeta. Certo le abbiamo consegnato le nostre. Come se il declino dello Stato
nazionale, salvo quello degli States, fosse ‘oggettivo’. Non è da questo
che viene la cruda indifferenza al mondo non nostro? Che vuol dire che ci siamo
sentiti attaccati tutti dall’attacco alle Due Torri? Non abbiamo creduto che
eravamo protetti dalla democrazia ma anche dall’ombrello atlantico di
Berlinguer, dio gli perdoni? Non ci pareva questa la normalità, tale da poter e
da dover essere protetta anche da una o più forme di guerra?
No. Non c’è oggi nella gente l’agghiacciante indifferenza che ci fu, almeno
che io sentii, di fronte alla guerra del Kosovo. Nel nostro paese, per esempio,
c’è un’emozione. Persino la stupefacente controversia e la corsa un po’
ridicola per partecipare alla Perugia-Assisi sono degli indicatori. è stato un
evento europeo, ha visto tornare una peculiarità italiana.
Riguarda solo ristrette minoranze? Non lo so. è da verificare. Ma l’emozione
è grande. L’hanno attizzata gli americani stessi, bruciati dall’attacco di
bin Laden e reagendo con la guerra.
Infine oggi discutiamo e combattiamo sull’Asia. Trovo amarissima, persino
assurda questa guerra a confronto con la nudità di quel paese, la sofferenza
dell’Afghanistan. E tuttavia si rompe il silenzio ipocrita dell’Occidente
sul Terzo e Quarto mondo, che tornano sulla scena in termini di confronto sui
grandi fini.
Sono bolle che presto si sgonfieranno? Non lo so.
Odio questa guerra. Ma essa dice anche che quella del Golfo, non andò proprio a
meraviglia per l’arroganza americana. E tutti veniamo richiamati a una
riflessione su temi enormi e inquietanti come il rapporto con l’Islam. C’è
come una mano oscura che ci riconduce in quella controversia mondiale, che sorse
– ti ricordi? – negli anni cinquanta: Nasser, il campo dei ‘non
allineati’, l’India di Nerhu, l’Algeria, l’America Latina, Castro. Con
tutte le differenze che conosciamo.
Io sono convinto che nel movimento dei no-global si sta costruendo
dolorosamente, faticosamente, un filo che lo lega agli afgani di quella lontana
terra d’Asia, quelli che subiscono e i Taleban e le bombe. è un ragionamento
ingenuo, arcaico? Eppure gli oppressi dalla società capitalistica,
disarticolati dalla mutazione di fine secolo nelle metropoli, avevano perduto
quel contatto con il Terzo e Quarto mondo, che a metà del Novecento fu fertile
e portò persino all’incredibile vittoria nel Vietnam; davanti a questa guerra
sono come obbligati a ritrovarne la percezione.
Intendo dire: certo, è stata sconfitta l’ipotesi di una rivolta
antimperialista che significasse liberazione di masse. E non possiamo essere
nemmeno sorpresi dall’handicap che ha pesato nella sinistra novecentesca nel
venire a un confronto col capitalismo al di fuori delle casematte nazionali,
nella dimensione globale. è molto più grande il potere degli Usa. E tuttavia
l’americanizzazione di cui parli sta rivelando le sue contraddizioni.
Sono, ripeto, segnali effimeri destinati a consumarsi rapidamente? In ogni modo
vedo uno stacco, una differenza rispetto all’ultimo decennio del Novecento.
Tu osservavi che i Ds sono una formazione di centro, ma che in Italia è
ancora viva una politicità e restano strumenti importanti di conflitto sociale.
Alcuni, e anche parte della Cgil, hanno pensato che nel congresso Ds prendesse
espressione almeno una forte minoranza in grado di flettere la
‘modernizzazione’ preconizzata dal governo e dal centro,di intervenire sulle
ineguaglianze crescenti, sulla deregulation dei mercati finanziari in crisi
ricorrente, a difesa della quota dei profitti devoluta al lavoro, riformulando
un intervento regolatore pubblico su produzione e mercato, invertendo
l’attuale tendenza dalla natura pubblica a quella di merce dei beni-valore
(scuola, sanità, ricerca, cultura, assistenza, previdenza, cura…). E, per
conseguenza, rafforzare il ruolo delle istituzioni elettive e/o di autogestione
sociale rispetto a quello dei privati – abolire insomma il concetto di
sussidiarietà. Queste sono discriminanti che ogni giorno passano sulla vita
della gente e la modificano.
Lo schieramento sulla guerra, che di fatto funziona non solo come trincea contro
il terrorismo ma come opzione per tutta la politica degli Stati Uniti e per il
loro ‘modello di civiltà’, sembra aver abbattuto forza e persuasione della
mozione che si presentava ‘di sinistra’. Che cosa resta a un’area non
ancora omologata? Se dovessi ritessere una ragion d’essere degli ex comunisti
da dove ricominceresti?
Comincerei dalla piaga che brucia: e come brucia. Non so se fra qualche
settimana la guerra afgana sarà finita. Certo non ne saranno dispiegate tutte
le conseguenze. La conclusione non riguarderà solo il mondo arabo, ma anche la
gerarchia mondiale. Nello schema di Bush (non so se Colin Powell abbia gli
stessi pensieri) c’è un nuovo direttorio mondiale, che vede sul trono gli
americano-inglesi, gli eredi dei Padri Pellegrini. Quindi tutta la partita
dell’Europa (con l’euro in atto) sarà aperta. è da vedere se la sinistra
sociale, i no-global, riusciranno a definire uno schieramento pacifista che
profili una presenza d’una sinistra europea autentica, e in grado di
rivolgersi anche sul Terzo e Quarto mondo, nel Medio Oriente e in Africa. C’è
un pezzo di sinistra istituzionale italiana in grado di prendervi parte?
Purtroppo i rapporti che aveva con le altre sponde del Mediterraneo sono
consumati, e per giunta il Sud, che vi era più aperto, è pesantemente in mano
della destra. Si può riprendere un dialogo con quei mondi?
E c’è la scadenza sociale. Destra politica e Confindustria vanno
all’attacco di ciò che resta del Welfare e del potere del sindacato. Il
conflitto sarà reso più pesante dalla caduta dell’unità sindacale e
dall’incertezza in Cgil. Qui si tratta di tener fermo, contrattaccare. Come?
Con quale schieramento? Qui conteranno la consapevolezza delle ferite, la
prudenza e l’attenzione reciproca.
Un ruolo essenziale in questo possibile cammino unitario spetta a Rifondazione
comunista, per ciò che essa è nella lotta e per il rapporto che ha con le
nuove leve in campo. E non penso solo a un’intesa sull’azione, ma alla
riflessione su un patrimonio di pensiero che ha bisogno di verifica e di
arricchimento, e di molto coraggio nel leggere il capitalismo che ci ha
sconfitto e tenta oggi strade violente.
Dei Ds, ho detto con franchezza che non credo a una loro vocazione di sinistra,
con tutti gli auguri che posso fare a Giovanni Berlinguer. Ma se vorranno
battere la destra di Berlusconi, e difendersi dalla nuova Santa Alleanza a
direzione americana, dovranno pure costruire un legame alla loro sinistra: con
accortezza e capacità di mutuo riconoscimento e ascolto. Spero che sinistra
alternativa e centrismo diessino e (anche) sindacato confederale si impegnino
nelle mediazioni necessarie. Direi: a ciascuno il suo, con la consapevolezza
delle differenze ma anche della minaccia di una destra che mira a dilagare.
Sono in dura salita tutti. Sia il centro ulivista-diessino sia Rifondazione, sia
la sinistra alternativa, sia il mondo dei no-global. Sono una singolare varietà
di culture, di vocazioni, di sensibilità. Si stanno appena profilando dal mare
grande dei nuovi bisogni i punti di raccolta e di difesa per riprendere
un’offensiva sociale, a un livello inesplorato.
E c’è un’avvio, almeno una minaccia, di recessione. La destra al comando è
feroce e rozza. Bisogna fermarla, batterla. Vengo da una generazione che per
salvarsi dal nazismo e poi nella guerra fredda si è dovuta affidare a
compromessi pesanti, persino con la monarchia dei Savoia. Fino – lo so bene
– a fare dell’appello all’unità un rito, quasi una nenia. Sono segnato da
questa storia, e ne conosco gli errori. Ma differenza e unità, ancora una
volta, mi sembrano necessarie.
Le divaricazioni sono diventate così grandi che non è semplice individuare
i punti sui quali fare una qualche unità. Tu quali vedi? Fra sinistre critiche
e centro diessino, intendo?
Ma sono squadernati sul tappeto! Ripeto: la guerra e quel che trascina e
trascinerà. Già tra Israele e Palestina c’è un’altra rottura sanguinosa
di una tregua fragile e impari, un’altra tragedia: che sarà domani? Affidiamo
solo agli interessi di Bush di fermarla? Una mobilitazione unitaria mi pare
perfino tardiva tanto è drammaticamente stringente.
E poi, se una linea antiliberista coerente non riesce a unificare, ci sono
alcuni nodi almeno che la rendono obbligatoria: la difesa della contrattualità
del sindacato, l’Articolo 18, l’attacco che verrà fatto alla previdenza. E
una politica del Mezzogiorno. E una certa pulizia istituzionale che in queste
settimane si è compromessa. La questione delle libertà politiche sulle quali
si va a una stretta. Il federalismo. Può un partito di centro sopravvivere se
non si batte su questo, alleandosi alla sua sinistra? I risultati dei Ds alle
elezioni sono parlanti.
Qui facciamo lezione agli altri, ma guardiamo un momento a quelli che mi sono più
vicini. Gracili minoranze noi stessi, non rinunciamo alle separazioni, alle
risse, alla boria, alle indifferenze dell’uno verso l’altro. Ognuno di noi
si sente autosufficiente, o al massimo si raccoglie nella sua cerchia di amici,
o nella nicchia dei più prossimi: sempre con un tratto di orgoglio e di
spocchia. Siamo minoranze difficili. è così. Ma non è tempo almeno di
combattere questa dissipazione?
Io conosco il mio limite. So che ho in testa, inchiodata, la forma
‘partito’. E torno ad essa, che pure è vecchia di un secolo: forse vetusta.
Bisogna vedere se le contraddizioni che ci stanno portando ancora a guerre e
rovesciamenti, e stanno rinverdendo – per me non c’è dubbio – il ruolo
della politica, chiedano forme inedite. Che ci dice l’avanzare dei no-global,
così ostinatamente differenziati, e qualche volta caotici?
In ogni modo il cielo di piombo dell’ultimo decennio si sta rompendo. Partorirà
nuove luci, spalancherà sentieri che io non so vedere?
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