Le idee hanno un peso
 



Fonte: Roberto Bosio, in Giovani e Missione.



Nell'aprile 1947, una quarantina di personalità americane ed europee si incontrarono nel villaggio svizzero di Mont Pelerin, vicino a Montreux. Il momento per loro era grave "i valori fondamentali della civiltà sono in pericolo", perché la libertà veniva minacciata dal "declino delle idee favorevoli alla proprietà privata e al mercato concorrenziale; infatti, senza la diffusione del potere e dell'iniziativa che queste istituzioni consentono, è difficile immaginare una società in cui la libertà possa essere effettivamente preservata".

Da allora molte cose sono cambiate, perché i neo-liberali hanno compreso la lezione di Gramsci sull’egemonia culturale: se occupate la testa delle persone, i loro cuori e le loro mani li seguiranno. E così, partendo da un nucleo all’Università di Chicago, formato dal filosofo economista Friedrich von Hayek e dai suoi studenti – come Milton Friedman -, i neo-liberali hanno creato una rete internazionale di fondazioni, istituti, centri di ricerca, pubblicazioni, che ha costruito un efficiente quadro ideologico, che si è imposto in tutto il mondo. Non importa quanti milioni di dollari hanno speso, perché il risultato ottenuto è straordinario: il sistema neo-liberale è diventato la condizione naturale e normale dell’umanità, anche se provoca enormi disastri. Queste che vi presentiamo sono solo alcune armi del loro arsenale.

La Hoover Institution on War, Revolution and Peace è nata nel 1919 - grazie all’opera del futuro presidente USA Herbert Hoover -, nell'università di Stanford. Ha pubblicato rapporti sulle rivoluzioni russa e cinese, e annuari sugli affari comunisti. Ha un budget annuo di circa 17 milioni di dollari, utilizzato anche per finanziare i lavori di Edward Teller – che avrebbe ispirato il personaggio del Dottor Stranamore -, e di celebri economisti liberali come George Stigler e Milton Friedman. 

L'American Enterprise Institute è stata creata nel 1943, e opera gomito a gomito con i membri del Congresso, la burocrazia federale e i media. Ha alle sue dipendenze un centinaio di persone, la metà dei quali esclusivamente dedite alla ricerca, alla produzione di libri e di rapporti, contenenti analisi e raccomandazioni politiche ed economiche. Il suo budget annuo, supera i 10 milioni di dollari, ma è in calo - come l’influenza che esercita. 
La Heritage Foundation è la più nota, perché legata alla figura di Ronald Reagan. In attività dal 1973, dispone di un budget annuo che si aggira sui 25 milioni di dollari e produce annualmente circa 200 documenti.

Infine citiamo il Cato Institute, e il Manhattan Institute for Policy Research, fondato da William Casey – poi direttore della Cia -, che si caratterizzano per le critiche ai programmi governativi di ridistribuzione dei redditi, e raccomandano in ogni occasione il mercato come soluzione di tutti i problemi sociali.

In Inghilterra, bisogna ricordare il Centre for Policy Studies, l'Institute of Economic Affairs, e soprattutto l’Adam Smith Institute – che ha sede a Londra -: secondo Brandon Martin, esperto in materia,  "ha fatto più di qualsiasi altro gruppo di pressione (…) per promuovere nel mondo intero la dottrina della privatizzazione".

Da molti anni, centinaia di milioni di dollari sono stati spesi per divulgare l'ideologia neoliberale. Da dove vengono tutti questi soldi? Negli anni Cinquanta ha avuto un ruolo centrale il William Volker Found, salvando  riviste traballanti, e finanziando numerosi libri e colloqui in varie università americane. In seguito, numerose fondazioni di ricche famiglie americane hanno contribuito alla causa: la Fondazione Ford, la Fondazione Bradley (28 milioni di dollari erogati nel 1994), che ha finanziato tra l'altro la Heritage Foundation, l'American Enterprise Institute e varie riviste e pubblicazioni. Così, tra il 1990 e il 1993, quattro riviste neoliberali tra le più importanti  hanno ricevuto diverse decine di milioni di dollari, mentre le sole quattro riviste progressiste americane a diffusione nazionale, hanno beneficiato  negli stessi anni, di contributi per 269.000 dollari. 

Grandi e antichi patrimoni industriali americani, - solo per fare qualche nome la Coors (birra), la Scaife e la Mellon (acciaio) e soprattutto la Olin (prodotti chimici) - finanziano le cattedre di diritto e economia nei migliori atenei degli USA, come Harvard, Yale, Stanford, e ovviamente Chicago. Il “generoso” donatore, che offre montagne di soldi, può condizionare le nomine dei professori, e indirizzare la ricerca.

Il denaro permette di inventarsi i dibattiti di sana pianta. Nel 1988, Allan Bloom, direttore del centro per lo studio della teoria e della prassi della democrazia all'università di Chicago – creato con diverse decine di milioni di dollari dalla Olin – organizza una conferenza. L'oratore proclama la vittoria totale dell'Occidente e dei valori neoliberali come risultato della guerra fredda. La conferenza è immediatamente ripresa sotto forma di articolo da The National Interest – che riceve un milione di dollari di sovvenzioni Olin. Il direttore di questa rivista è un altro neoliberale, Irving Bristol – che riceve altri soldi dalla Olin come professore alla Business School della New York University. Un altro intellettuale di destra, Samuel Huntington – che dirige guarda caso l'istituto di studi strategici a Harvard, creato grazie a un finanziamento Olin di 14 milioni di dollari -, vine chiamato a "commentare" questo intervento nello stesso numero della rivista. Questo “dibattito” viene infine ripreso dalle pagine del New York Times, del Washington Post e del Time. Così il cerchio ideologico si chiude.  Se non si crede che le idee abbiano conseguenze, si finisce per subirle[1][1] 


Breve storia di due brillanti allievi della dottrina neo-liberale: gli Stati Uniti e l’Inghilterra. Ovvero vent’anni di opportunità per le élite economiche

Nel 1979, Margareth Thatcher diventa primo ministro. Il valore centrale della sua dottrina – e del neo-liberalismo – è la nozione di concorrenza: tra Paesi, regioni, imprese e naturalmente individui. La concorrenza è un valore centrale perché separa il montone dagli agnelli, gli uomini dai ragazzi, gli adatti dai non adatti. La concorrenza è sempre una virtù, i suoi risultati non possono essere un male. Secondo la Thatcher “Il nostro lavoro è di vantare le disuguaglianze, e di fare in modo che i talenti e le competenze possano esprimersi, per il beneficio di tutti”. In altri termini, non inquietatevi per quelli che potranno restare al palo nella battaglia della concorrenza, le persone non sono uguali per natura, ma questo è un bene perché i contributi dei più forti, porteranno vantaggi a tutti. La storia però, ci dice esattamente il contrario.

Nell’Inghilterra ante Thatcher, circa una persona su dieci era sotto la soglia della povertà, vent’anni dopo una persona su quattro, e un bambino su tre è ufficialmente povero. Si tratta di persone che non possono riscaldare la loro casa in inverno, che devono mettere delle monete nel contatore per avere elettricità o acqua, che non hanno un indumento caldo o impermeabile, …[2][2]

Per capire le “riforme fiscali” del duo Thatcher-Major (il premier conservatore venuto dopo la Dama di ferro) bastano poche cifre: durante gli anni Ottanta, l’1% dei contribuenti riceveva il 29% di tutti i benefici dovuti alle diminuzioni d’imposte. Un single che guadagnava la metà del salario medio un aumento delle imposte pari al 7%, quando un single che guadagnava 10 volte il salario medio, otteneva riduzioni del 21%.

Il settore pubblico viene brutalmente ridotto, privatizzando tutto il possibile, perché non obbedisce alla legge del mercato. I neoliberali considerano che tutto ciò che è pubblico è per definizione “inefficiente”.

Il governo della Thatcher ha utilizzato il denaro dei contribuenti per cancellare i debiti e ricapitalizzare le imprese prima di metterle sul mercato – i servizi di erogazione dell’acqua hanno ricevuto 5 miliardi di sterline per coprire i debiti, più altri 1,6 miliardi per rendere il matrimonio più attraente per gli acquirenti potenziali. Eppure la maggior parte del settore pubblico in Inghilterra era redditizia: nel 1984, le imprese pubbliche hanno contribuito con più di 7 miliardi di sterline al bilancio del Tesoro – che poteva redistribuirli per colmare le differenze sociali –. Tutto questo denario va ora nelle mani di azionisti privati. I servizi delle relazioni pubbliche hanno molto insistito sul potere dei piccoli azionisti in queste compagnie, in effetti 9 milioni di inglesi hanno acquistato delle azioni, ma la metà ha investito meno di 1000 sterline, e la maggior parte ha venduto quasi subito, non appena ha potuto incassare qualche guadagno. Gli impiegati di British Telecom hanno acquistato solamente l’1% delle azioni, quelli di British Aerospace l’1,3%, ecc. In Gran Bretagna – come nel resto del mondo, la stragrande maggioranza delle azioni di società privatizzate sono oggi nelle mani di istituzioni finanziarie e dei grandi investitori.

Il fine della privatizzazione è stato semplicemente il trasferimento di ricchezze dalle tasche dello Stato a mani private.

Kevin Phillips, un analista repubblicano, ex-consigliere del Presidente Nixon, ha pubblicato nel 1990 un libro dal titolo "The Politics of Rich and Poor", nel quale esaminava l’effetto sulla ripartizione dei redditi della politica di Reagan, elaborata in gran parte dai conservatori della Fondazione Héritage. Durante gli anni Ottanta l’1% più ricco delle famiglie americane ha visto aumentare il proprio reddito familiare medio del 50%. Il loro reddito pro-capite è passato da un confortevole valore di 270.000 $, a uno, decisamente inebriante, di  405.000 $. Per ciò che riguarda gli altri: il 10% più povero ha toccato il fondo, perdendo il 15% di redditi già magri; da una media già molto bassa di 4.113 $ annuale, sono scesi ad un livello inumano di 3.504 $. Nel 1977, l’1% più ricco delle famiglie americane aveva un reddito medio 65 volte maggiore del 10% più povero. Dieci anni dopo, il rapporto era diventato di 115 a 1.

Non c’è niente di misterioso in queste tendenze. Le politiche sono fatte specificatamente per fornire a quelli che sono già ricchi ancora di più, diminuendo le imposte e i salari. La giustificazione teorica e ideologica di queste misure, è che redditi più elevati per i ricchi e profitti più elevati portano maggiori investimenti, una migliore ripartizione delle risorse, e quindi più impieghi e benessere per ognuno. In realtà, in modo perfettamente prevedibile, il movimento di denaro verso la parte alta della scala sociale genera bolle speculative, una ricchezza cartacea, e l’aumento delle crisi finanziarie di grandi dimensioni (come è avvenuto in Asia, Russia, e America Latina). Se i redditi sono ridistribuiti verso la massa dei meno abbienti, saranno invece utilizzati per il consumo e quindi porteranno benefici all’impiego[3][3].

  Quale modello di sviluppo abbiamo?

Qualche anno fa, Lawrence Summers, già capo-economista della Banca mondiale e oggi segretario – cioè ministro - del Tesoro degli Stati uniti, affermava che “Non ci sono limiti alla capacità di portata in un futuro prevedibile; non c'è un rischio di apocalisse a causa del riscaldamento del clima o di altri fattori ecologici. Se mettiamo un limite alla crescita economica, pensando che esistano limiti naturali, faremmo un tremendo errore che costerebbe un patrimonio in termini di costi sociali”.

L'assenza della natura nel modello dominante di sviluppo è impressionante, e trova il suo fondamento nell’illusione che la natura sia illimitata: un ammasso infinito di materie prime da utilizzare per favorire la crescita economica. In questo vuoto ecologico, non solo è possibile ma auspicabile  trasformare il mondo a immagine di Los Angeles.

Operando così, sono andati persi 1/3 dei terreni coltivabili della terra e delle foreste tropicali, 1/4 delle risorse idriche disponibili e del patrimonio ittico… e non s’intravede un’inversione di tendenza[4][4].

In biologia, la nozione di sviluppo porta un senso di potenza, di forza, è un processo dinamico che si compie secondo la natura di ogni organismo, ma non è senza fine. Un organismo biologico che crescesse senza fine sarebbe mostruoso, e destinato a morte sicura. La coscienza comune della gente, dei cittadini, percepisce questa dimensione ecologica, mentre i maestri che impongono la loro legge, non hanno ancora  accettato questa dimensione. Ci troviamo in pieno modello non di sviluppo ma di autodistruzione; siamo entrati nel paradosso dove la crescita è un articolo di fede, che si accompagna ad una crescente indisponibilità delle condizioni vitali per realizzarla; lo sviluppo divora se stesso.

Questo modello ha orrore anche della diversità naturale. Il biologista E.O. Wilson stima che perdiamo forse più di 250 specie viventi al giorno, cioè undici all’ora; a questo ritmo avremo perduto il 20% di tutte le specie fra venti a quarant'anni. Stiamo perdendo in qualche decennio milioni di anni di storia della vita sulla terra: è un vero e proprio ecocidio. Come scrive l'antropologo italiano Fabrizio Sabelli “Come il genocidio rappresenta, in un certo qual senso, la dottrina di base della criminalità nazista, è lecito sostenere che l'ecocidio si possa analogamente configurare se non come una dottrina, di certo come una pratica di base della criminalità ambientale dei centri del potere economico neo-liberale; una pratica senza dubbio non arbitraria e neppure eccezionale, ma in qualche modo programmata e sistematica, legittimata da dottrine economiche che poche persone osano, oggigiorno, contestare”[5][5].

Note  
[1][1] Cf. George S., Fondi e Fondazioni. Come il pensiero diventa unico, in “Le Monde diplomatique”, Edizione italiana, settembre 1996; e George S., A short history of neo-liberalism twenty years of elite economics and emerging opportunities for structural change, Conferenza su “'Economic Sovereignity in a Globalising World”,
Bangkok, 24-26 Marzo 1999, scaricato dal sito http://www.tni.org/george/.

[2][2] Questi esempi provengono dal rapporto 1996 del British Child Poverty Action Group.

[3][3] George S., A short history of neo-liberalism twenty years of elite economics
and emerging opportunities for structural change, Conferenza su “Economic Sovereignty in a Globalising World”, Bangkok, 24-26 marzo 1999, scaricato dal sito http://www.tni.org/george/.

[4][4] Bologna G., Italia capace di futuro, Emi, Bologna, 2000, p. 10.

[5][5] Per quanto contenuto nel paragrafo (eccetto dove è indicato diversamente) Cf. George S., Lezione di chiusura al Corso dell’UNICEF Italia, La Sapienza, Roma, 5 maggio 1994, scaricato dal sito http://www.tni.org/georg







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